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Aurelio C, La via italiana al socialismo, 1972-73, acrilici su pannelli, 20metri x 3metri
Notte d’occupazione di Graziella Tonon Notte d’occupazione innamorata in un’auto scassata a parlare, parlare di rivoluzione lui con l’eskimo usato lei col montone appena comprato da Max Mara.
Pensando ai giovani, ho scritto alle mie nipotine di Bologna che vedo impegnate in una ricerca ‘di vita’ non solo personale ma anche collettiva, chiedendo loro di descrivermi le loro esperienze con l’associazionismo… Fernanda Fedi L’associazionismo è una risorsa Personalmente non ho mai fatto parte di alcuna associazione, ma mi è capitato recentemente di appoggiare ed assistere alla nascita di una di esse. Qualche mese fa, infatti, raccogliendo informazioni sull’Esame di Stato per l’abilitazione come Psicologo, mi sono imbattuta in un nutrito gruppo di giovani coetanei, laureati in Psicologia, riunitosi in un gruppo su Facebook con l’obiettivo di discutere, proporre e promuovere possibili riforme dell’attuale Esame di Stato e tirocinio post-lauream, percepito dai più, e dalla sottoscritta, come un ennesimo ostacolo e rallentamento a un percorso di formazione già di per lungo e mai rinnovato negli anni. Da un semplice gruppo su un social network, la condivisione degli ideali e il desiderio di rinnovamento ha portato alla nascita di una vera e propria associazione, che conta attualmente più di 10000 partecipanti e che, dopo un’incessante attività di divulgazione e una serie di manifestazioni organizzate in tutte le piazze d’Italia è riuscita ad aprire un dialogo con il ministro dell’Istruzione, che, in risposta alle richieste portate avanti, ha deciso di proporre un disegno di legge per rendere abilitanti alcune lauree, tra cui quella di Psicologo (con l’obiettivo appunto di abolire il contestato Esame di Stato- esistente peraltro solo in Italia). Ho seguito da vicino tutte le “battaglie” portate avanti da questo gruppo di giovani e i risultati, che con mia grande sorpresa, ogni volta sono riusciti a portare a casa. Non nascondo di essere rimasta molto colpita dalla loro intraprendenza e perseveranza.  Ho avuto un esempio tangibile di come l’associazionismo sia una risorsa importante per la realizzazione di scopi condivisi con il fine ultimo di un rinnovamento sociale. Carlotta Fedi Nuova Acropoli è un’associazione che si occupa di filosofia, volontariato e cultura. Obiettivi: 1.Promuovere il rispetto della dignità umana senza distinzione di credenze, culture e condizioni sociali, riunendo gli uomini e le donne attorno ad un ideale di fraternità e solidarietà.  2.Promuovere la concordia tra tutti gli esseri umani senza distinzione attraverso lo studio comparato dei valori umani e l’azione solidale.  3.Sviluppare le capacità dell’individuo affinché possa integrarsi nella Natura ed ampliare le qualità della sua personalità attraverso la sua azione.  Mi sono affacciata a questa associazione perché proponevano un corso di filosofia attiva e in quel periodo ero alla ricerca di risposte a dubbi esistenziali ed ero curiosa di approfondire la filosofia, una materia che non studiavo a scuola. Sono stata membro dell’associazione per un paio d’anni e insieme abbiamo fatto tante cose: ho partecipato a un corso di filosofia attiva, a un campo estivo legato alla protezione civile, incontri culturali rivolti al pubblico e a un progetto di riqualificazione di un parco. Oltre a ciò, ho vissuto a pieno la vita associativa partecipando a cene, riunioni, raduni e attività di promozione dell’associazione. Durante il periodo passato in associazione mi sono trovata molto bene e la cosa che mi ha colpito di più è stato il forte spirito di gruppo e la chiara direzione di dove, come gruppo, stessimo andando. Mi sono trovata molto bene fino a quando, mese dopo mese, ho iniziato a vedere in maniera più distaccata il gruppo e tutti gli insegnamenti. Da quel distacco ho capito che avevo voglia di approfondire altre cose e scoprire nuovi punti di vista.   Nuova Acropoli mi ha insegnato tantissime cose, mi ha ispirato e aiutato dandomi diversi punti di vista sulla vita, dall’occidente all’oriente e creando in me un legame stretto tra pensiero e azione. Applicare e non teorizzare. Parrocchia , che frequento da quando ho 12 anni. Inizialmente sono stata invitata da una amica a partecipare al gruppo dei giovani, un pomeriggio a settimana dove prima si gioca a pallone e poi si fa un’oretta d’incontro. Quando ti affacci ad una realtà così strutturata mano a mano che cresci ogni anno ci sono nuove proposte di attività a cui partecipare, nel mio caso prima «Estate ragazzi» come animatrice poi il catechismo. La cosa che trovo più bella della parrocchia è il gruppo. ho conosciuto tutti i miei più cari amici e ho fatto tantissime esperienze. La contraddizione più grande invece è che la maggior parte dei giovani, almeno nella mia parrocchia, ci va per fare attività insieme e divertirsi, non per interesse legato alla fede.  Voolo è il progetto che ho creato per rendere più accessibile il mondo del volontariato ai giovani attraverso una piattaforma digitale che raccoglie varie opportunità di volontariato presenti sul territorio. Attualmente stiamo conoscendo le associazioni del territorio, sia legate al volontariato sia a carattere culturale con l’obiettivo di diffonderle tra i giovani. In questo periodo stiamo intervistando chi sta dietro ad ognuna di esse. Quello che colpisce è il loro credere profondamente nel loro progetto e il bisogno ,sempre crescente, di avere nuovi giovani che possano aiutarli.  Francesca Fedi
Ecco alcuni brevi versi scritti da un amico poeta e critico d’arte, scomparso l’anno scorso. Sappiamo che gli avrebbe fatto piacere partecipare a questa iniziativa.
È il 21 agosto 1964 quando l’agenzia di stampa Ansa diffonde la notizia: «Con profondo dolore la segreteria del Pci annuncia la morte del compagno Palmiro Togliatti (1893-1964), avvenuta oggi a Jalta alle ore 13.20». L’Unità, organo ufficiale del partito, esce in edizione straordinaria con la prima pagina listata a lutto e la scritta “Togliatti è morto”. Le esequie si tengono a Roma il 25 agosto del 1964, alla presenza di una folla immensa. Sei anni dopo, Renato Guttuso inizia a lavorare a u n o p e r a straordinaria che verrà intitolata appunto “I funerali di Togliatti”: quattro metri e quaranta la lunghezza per tre e quaranta l’ altezza, circa quindici metri quadrati di pittura acrilica su carta, s u c c e s s i v a m e n t e applicata a quattro pannelli di legno compensato uniti tra loro. Tra bozzetti e studi, l’opera viene su a poco a poco nella tranquillità del suo studio di Velate, lontano dalle distrazioni dei salotti romani, con quasi centocinquanta figure tra le quali almeno trentatré ritratti identificabili e un cospicuo numero di altre figure, bandiere e quant’altro. Viene terminata a metà del 1972, in tempo per partire alla volta di Mosca con altre novantatré opere, dagli esordi del 1931 al presente, scelte da Guttuso per essere allestite in dieci sale dell’Accademia di Belle Arti di Mosca e in parte all’Ermitage: di fatto la sua mostra più completa all’estero fino ad allora, che viaggerà poi per molti mesi in altre capitali dell’Est. L’occasione è il conferimento dell’ambìto Premio Lenin, la più alta onorificenza internazionale dell’URSS “per il consolidamento della pace fra i popoli”, già assegnata a Neruda, Alberti, Picasso ecc. Un anno dopo, ai primi di settembre del 1973, si inaugura a Milano la grande Festa Nazionale dell’Unità al Parco Sempione, la prima da quando Enrico Berlinguer è segretario nazionale. Gianni Cervetti, segretario della Federazione milanese, chiama a una straordinaria mobilitazione dei militanti perché il lavoro da fare è immenso. C’è da costruire una sorta di “città nella città”, teatri, palchi, ristoranti, ristori ecc. rispettando il verde del parco, tempi strettissimi e l’ambizione di rinnovare il senso e il “tono” fino ad allora un po’ strapaesano e festaiolo di iniziative di massa come quella. Si mette mano all’organizzazione di una vera e propria TV della Festa, si costruiscono innovative tensostrutture, Giò Pomodoro progetta il palco principale di Piazza del Cannone, si pensa anche all’arte e alla pittura, e Mario De Micheli, critico d’arte dell’Unità, ha un’idea, chiedere a Guttuso (che nel frattempo ha donato al PCI il grande quadro dei “Funerali”) di ospitarlo al Festival. È detto e subito fatto. Partono telefonate e fax (erano le mail dell’epoca) e la cosa è decisa. Si costruirà uno stand apposito, e a fine agosto, a pochi giorni dall’inizio, il quadro, smontato e imballato, arriverà in aereo a Linate da Mosca. E qui nel racconto entro io, ventottenne critico d’arte che Mario aveva chiamato a Milano tre anni prima per essere suo vice all’Unità milanese e per collaborare alle sue molte iniziative espositive e culturali. La mattina prevista dell’arrivo, infatti, in Federazione ci si accorge che per qualche motivo nessuno ha pensato al trasporto dell’opera da Linate al Parco Sempione (il Partito può essere anche questo). Tempo di ferie, trasportatori specializzati d’arte chiusi o introvabili, si decide allora di “fare in casa” mandando uno dei camion attivi per il cantiere del Festival. Solo sarà bene che il trasporto, data la particolarità dell’oggetto trasportato, venga supervisionato da un militante “esperto”. Ecco dunque che arriva la telefonata al giovane compagno critico. Raccomandazioni pressanti, richiami alla massima attenzione e responsabilità, e poi… la botta: “Tieni presente che è assicurato per cinquecento milioni!” Insomma, una cifra quel mezzo miliardo di lire decisamente astronomica per allora, e che mi entrò nella coscienza come un brivido gelato alla schiena. Mi spiegano dove passare a prendere la documentazione doganale per il ritiro, dove incontrare camionista e camion già sul posto a Linate, quando partire (subito). E dunque vado subito, non ben sicuro se esserne fiero o preoccupato. A Linate, mi accorgo che era giusta la seconda. Il veicolo che mi trovo di fronte infatti è un camioncino scoperto, con due sponde a liste di legno un po’ sgangherate, un pianale ingombro di barattoli e cartoni e una ribaltina chiusa con fil di ferro essendo rotti entrambi gli appositi ganci di chiusura. I famosi potenti mezzi dunque. Solo che c’è poco da sorridere! Sì, perché l’altra sorpresa, stavolta preparata dal mittente, cioè dai compagni sovietici, consiste nello scoprire che le quattro casse in cui è smontata la preziosa ma fragile opera (si tratta in definitiva di carta dipinta applicata a pannelli di legno) non sono contenitori interi, ben chiusi e stagni. Sono invece strutture a telaio, con listelli robusti e distanziati e spessori interni di polistirolo, buone certo a difendere egregiamente il contenuto da urti e scossoni, ma ben poco funzionali contro agenti nocivi esterni quali, per esempio, polvere o pioggia. Dalle larghe aperture di tali intelaiature costellate di etichette scritte in cirillico, difesa solo da uno strato di spessa carta velina (il pluriboll ancora non esisteva mi pare, o non era ancora arrivato a Mosca) si intravede distintamente la superfice dipinta, e fiammeggiano gli strepitosi colori di Guttuso, l’energia robusta delle sue immagini nel rosso di una bandiera, nel profilo di un pugno chiuso o di un viso a grandezza naturale. E il cielo, in quella tarda mattinata di fine agosto, è piuttosto temporalesco, mentre il mio camion è, e resta, desolatamente scoperto. Il senso della responsabilità (un capolavoro insostituibile! mezzo miliardo!), fino ad allora sospeso come un sottofondo teorico in un angolo della mente, viene clamorosamente, angosciosamente a galla nell’attimo in cui mi rendo conto, assieme al guidatore del camion, che per coprire l’opera non disponiamo che di un paio di improbabili teloncini (poco più di lenzuoli, evidentemente usati durante i tinteggiamenti degli stand) e di un po’ di cordami e nastri di varia natura. Ognuno combatte la propria battaglia con le armi che ha! Ci mettiamo dunque a ripulire il pianale e a fissare il più saldamente possibile il carico dei contenitori alle sponde, coprendolo il meglio che si può. Facciamo qualche prova di partenza e frenata (non dimenticherò mai i sinistri, inquietanti cigolii prodotti dallo sfregamento delle casse tra di loro), e ci avviamo in lenta colonna su viale Forlanini, camion davanti e io dietro, tenendo gli occhi al cielo e le dita freneticamente incrociate. Alea iacta est! È stata una delle ore più angosciose della mia vita, che oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, ripenso ancora con i sudori freddi. Ai semafori rossi il tempo non sembrava passare mai, gli altri veicoli ci sorpassavano strombazzando e imprecando, ogni sussulto delle ruote sui binari del tram mi entrava nel cuore come una coltellata. Per non dire delle gocce di pioggia che di tanto in tanto venivano minacciosamente a costellare il parabrezza... L’arrivo su via Legnano e l’ingresso sotto lo striscione del Festival fu la conquista della terra promessa, il definitivo sollievo che ripagò le mie tribolazioni. All’ultimo momento riuscimmo ad esporre anche lo spettacolare dipinto «La via italiana al socialismo», che Aurelio C. (Aurelio Ceccarelli) con i suoi collaboratori Leonardo Giulietti e Giorgio Cardarelli aveva appena terminato per il Circolo Valentia di Valenza Po, oggi conservato presso la Fondazione Luigi Longo di Alessandria. Venti metri di lunghezza per tre di altezza, un’immagine immensa e imponente di formidabile impatto narrativo e scenografico, al cui cospetto non pochi nella fiumana di visitatori che vi scorreva davanti si levavano il cappello. Ma stavolta quell’opera, sia all’andata che al ritorno, fu trasportata direttamente dai compagni di Valenza.
Renato Guttuso, I funerali di Togliatti, 440x340cm, acrilici su carta applicata a pannelli di legno, 1971-72 Aurelio C, La via italiana al socialismo, 1972-73, acrilici su pannelli, 20metri x 3metri
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È noto a tutti ciò che avvenne nel 1948, quando Palmiro Togliatti, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, recensendo sul numero di novembre della rivista Rinascita una mostra tenuta a Bologna, scrisse parole che segnarono profondamente l'arte italiana di quel tempo. L'esposizione, aperta dal 17 ottobre al 5 novembre al Palazzo del Re Enzo, era intitolata Prima mostra nazionale d'arte contemporanea ed era stata organizzata dall'Alleanza per la Difesa della Cultura, creata in quell'anno nell'ambito del Fronte Democratico Popolare, contando, nel Comitato d'onore, intellettuali come Cesare Gnudi, Francesco Arcangeli e Giuseppe Raimondi. Ecco quanto scriveva Togliatti: «È una raccolta di cose mostruose; riproduzioni di cosiddetti quadri, disegni e sculture che a cura dell' Alleanza della Cultura di Bologna sono stati esposti in quella città in una “Prima ( sic ) mostra nazionale d'arte ( resic ) contemporanea”. Come si fa a chiamare “arte”, e persino “arte nuova” questa roba, e come mai hanno potuto trovarsi a Bologna, che pure è città di così spiccate tradizioni culturali e artistiche, tante brave persone disposte a avallare con la loro autorità, davanti al pubblico, questa esposizione di orrori e di scemenze come un avvenimento artistico? Diciamo la verità: queste brave persone la pensano come noi tutti; nessuno di loro ritiene o sente che sia opera d'arte uno qualsiasi degli scarabocchi qui riprodotti, ma forse credono che per apparire “uomini di cultura” sia necessario, davanti a queste cose, darsi l'aria di superintenditore e superuomo e biascicare frasi senza senso. Suvvia! Abbiate coraggio! Fate come il ragazzino della novella di Andersen: dite ch'è nudo il re; e che uno scarabocchio è uno scarabocchio. Ci guadagnerete voi perché sarete stati sinceri, e gli artisti, o pretesi tali, certo s'arrabbieranno sulle prime, ma poi farà bene anche a loro». (Roderigo di Castiglia, Segnalazioni , in Rinascita , anno V, n. 11, novembre 1948, p. 424). Sono parole che ancor oggi suscitano sconcerto e stupore, soprattutto se si considera chi erano gli artisti espositori, che volevano appunto rappresentare uno spaccato significativo della situazione dell'arte contemporanea: accanto ad alcuni dei componenti del Fronte Nuovo delle Arti come Renato Birolli, Antonio Corpora, Renato Guttuso, Ennio Morlotti, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Emilio Vedova, erano presenti altri artisti quali Afro, Corrado Cagli, Bruno Cassinari, Alfredo Chighine, Franco Francese, Pompilio Mandelli, Piero Martina, Gino Meloni, Giovanni Omiccioli, Cesare Peverelli, Ampelio Tettamanti, Ernesto Treccani, Mirko, Vittorio Tavernari: insomma, una consistente parte di coloro che sarebbero diventati i più importanti e rappresentativi protagonisti della scena artistica italiana del secondo novecento. ( … )
Emilio Vedova, pubblicato in Rinascita,  anno V, n. 12, dicembre 1948, p. 470
1871-1921 / 1991-2021 di Attilio Pizzigoni «Le azioni creano sogni e non viceversa» dal “Che fare” di Nikolaj Černyševskij 21 gennaio 2021 - Giorno di celebrazioni. Cerimonia e memoria di un evento passato, da ricordare. Ripresa o ripetizione. Riferimento nel quale identificarsi o traccia di un futuro da compiere. Nostalgia, revisione, speranza. Eterno ritorno o completamento di un’azione interrotta. Modelli da seguire, disfatte da scongiurare. Mito o fantasma della Comune. Mito o fantasma della Rivoluzione d’Ottobre. Forse è una strana legge dei numeri quella che cade in questo anno e che non solo ci riporta al centesimo anniversario dalla nascita del Partito Comunista in Italia, ma anche a quella che trent’anni or sono, nel 20° Congresso del 1991, portò al suo scioglimento. Ho sempre pensato che fosse un grande errore aver chiuso quell’esperienza politica proprio nel momento in cui il venir meno delle cortine ideologiche e geografiche avrebbe liberato la battaglia politica dai fantasmi delle tragedie staliniane che avevano macchiato così profondamente, e forse distrutto, la memoria di un’utopia realizzata. Ogni data, ogni anno, ogni volta, è l’identica ricerca di una guida per agire, per tornare a discutere delle inesorabili logiche, degli inevitati errori, delle incrollabili speranze. Il tema rimane quello delle contraddizioni tra il 1789 e il 1793, tra il 14 luglio e il 18 brumaio, dalla festa comunitaria al giacobinismo fino al centralismo statale che inevitabilmente riporta allo sciovinismo. Ma nei corsi e ricorsi di queste date, entusiasmanti e terribili, quella che più mi sobbalza nel cuore é quella dei 72 giorni parigini che vanno dal 18 marzo al 28 maggio del 1871. È l’esperienza della Comune Parigina, con i suoi Manifesti, quello delle Donne Internazionali, e quello altrettanto forte degli Artisti, è quella la storia che ancora oggi sa travolgerci come data che ci indirizza a una visione di futuro. La Comune, con tutta la sua evidenza di utopia concreta, che ci travolge nella visione di futuri possibili, che attualizza e un senso e una visione sempre attuale alla lunga e ininterrotta vicenda di lotte per la dignità dell’uomo e per la dimensione democratica e comunitaria del lavoro. Celebrazione, non come commemorazione di un fatto ma come liberazione di un possibile. È lo spazio della Comune che leggiamo nelle poesie di Rimbaud, nella canzone Le temps des cerises, sono occhi contemporanei quelli con cui guardiamo le figure di Louise Michel e di Elisabeth Dmitrieff. Sono quei 72 giorni di una primavera di 150 anni or sono che ancora ci coinvolgono perché da sono nati gli ideali della modernità. Oggi non guardiamo più alla Comune come a un mito crollato, come ad un errore di utopia da superare nella prospettiva di realizzare un comunismo dal basso. Questi furono i sentimenti che animarono la Rivoluzione d’Ottobre e certamente anche lo stesso spirito di Livorno; il nostro “’21” se avrà da esserci, non potrà essere la ricerca di un antidoto al fallimento del 1871, non può essere quello che aveva cantato Lenin al settantatreesimo giorno dopo la presa del Palazzo d’Inverno ballando felice nella neve perché la loro rivoluzione era durata un giorno di più di quella parigina. Se gli ideali della Comune di Parigi sono sempre più attuali, non è per rivendicare rivincite o primati, ma perché vediamo sempre più fermi e concreti, davanti a noi, quei necessari percorsi di emancipazione in cui il lavoro possa ritrovare quella dignità capace di dare piacere e felicità, all’interno di una società capace di ineguaglianze sociali. È nella prospettiva di un lavoro liberato da ogni reificazione del profitto che queste celebrazioni trovano il loro significato, nel senso di quella frase con cui si concludeva il Manifesto degli Artisti della Comune, che ancora risuona in tutta la sua attualità e lucidità di un progetto sociale: Lavoreremo insieme per la nostra rigenerazione, il benessere e la felicità comune, gli splendori futuri e la Repubblica Universale. ” Ecco, è sull’eco di quelle parole che vorremmo leggere la solennità di questa ricorrenza.
Una bandiera della Comune di Parigi. Fu donata alla Direzione nazionale del PCI, che la fece collocare all'interno della parete/monumento di Gio Pomodoro, nell'atrio del palazzo di via Botteghe Oscure a Roma.
NON VOLEVO NON VOLEVO NON VOLEVO CHE GLI CAMBIASSERO NOME di Vivian Lamarque UNO. Sono passati cento o centomila anni? DUE. Non volevo non volevo non volevo che gli cambiassero nome. Scrissi persino a Roma supplicandoli e loro gentilmente mi risposero. Devo cercarla quella lettera. TRE. Non volevo non volevo che il computer si chiamasse pc e soprattutto che si pronunciasse picì, non mi rassegnavo. Ancora oggi lo chiamo computer. QUATTRO. Quando ho nostalgia (non degli errori, di tutto il resto) mi guardo certi quadri, per esempio quelli di Gioxe De Micheli (lì non ci sono gli errori, c’è tutto il resto) e leggo le vite di alcuni, per esempio quella di Gandhi (lo so che qui non c'entra, ma è il mio consolatore prediletto). CINQUE. Ora sto leggendo l’Epistolario della famiglia Rosselli, madre e tre figli maschi. Si pensa sempre a due, Carlo e Nello, trucidati come si sa, a 38 e 37 anni, vicino a Parigi, dai sicari Cagoulard che agivano per ordine di Mussolini. Però, povera madre, ventenne aveva perso anche il primogenito Aldo, sul fronte carnico, durante la prima guerra mondiale. Scrisse Carlo molti anni dopo, hai creato tre vite che non saranno numeri vani, non lasceranno l’ambiente così come lo trovarono, bruceranno forse tutt’e tre, ma per aver cercato di avvicinarsi troppo alla luce” .
Un aspetto meno noto di una bella iniziativa L’arte contro la barbarie Roma 1944 di Mauro Corradini Mi viene in mente quella volta che i nostri "padri" fecero un gesto d’arte davvero splendido e, insieme, quantomeno insolito. Settantacinque anni fa, in piena guerra e in piena occupazione, in anticipo d’un anno rispetto all’Italia settentrionale, Roma fu liberata da nazismo e fascismo. Come è noto, proprio a Roma il 23 agosto 1944, con il sostegno del quotidiano L'Unità, fu organizzata da un gruppo di artisti una mostra, giustamente titolata "L'arte contro la barbarie". Conosciamo tutti le "Fantasie" di Mafai o il "Gott mit Uns" di Guttuso, opere che vi si videro in pubblico per la prima volta, insieme a molte altre. Forse meno noto, però, è il percorso iniziale (così è stato descritto), di cui non è rimasta traccia. Quale? Sei opere "rifatte" per l’occasione, sei copie (chi poteva chiedere un prestito allora? e a chi chiederlo?), che tracciavano, nella mente dei curatori, un percorso esemplare nell'arte europea di impegno sociale e politico. Difatti, Mario Mafai rifece "La libertà guida il popolo", di Eugène Delacroix; Renato Guttuso rifece, di Goya, «Le fucilazioni del 3 di maggio»; Giulio Turcato, «La difesa di Pietrogrado» di Deineka; Antonio Di Mata copiò «O Roma o morte» di Gioacchino Toma. infine Ugo Rambaldi rifece «A Marat» di Jacques-Louis David e Mirko l’altorilievo di Francois Rude «La Marsigliese», collocato sull’Arc de Triomphe di Parigi. Non è rimasto nulla di quelle copie (o meglio: rifacimenti); però ricordarle potrebbe essere un'indicazione, su cui molti potrebbero oggi intervenire, aprendo commenti, riflessioni, meditazioni (non necessariamente solo di storia e critica d'arte). Non si tratta di commentare, ma riflettere su un percorso, elaborato da un gruppo di artisti in quella calda estate romana del 1944. E di ricordare, anche, la natura e il senso dell’eccezionale "manualità" che quei nostri artisti seppero esprimere per l’occasione, così alta e insieme considerata così "normale" al punto di non conservare tracce né riproduzioni di quei cartoni, bozzetti, disegni e dipinti... Magari - e sarebbe bello - scopriremo che qualcuno ha ancora in soffitta qualche documento o qualche foto di quella mostra!
La scarna locandina de "L'arte contro la barbarie", alla Galleria di Roma, dal 23 agosto a 5 settembre 1944.
CHE NOSTALGIA! di Francesco D’Adamo Delle serate passate in Sezione o alla Casa del Popolo per il dibattito o per provare a rimorchiare una compagna; delle albe gelate d’inverno in via Rubattino, con il megafono davanti all’Innocenti, cambio turno, solo un incerto filo di luce all’orizzonte, lo stupore della sirena e gli operai che uscivano assonnati in bilico sulla bici nel nebiùn ; di quando eravamo noi ; di quando cantavamo; di quando passavamo le notti d’estate a discutere sul marciapiede fino a quando non ci arrivava una secchiata d’acqua dal secondo piano. Che nostalgia dei treni speciali che andavano a Roma, dieci ore di viaggio e sigarette Gitanes - e una volta fino a Reggio Calabria con le bombe sui binari - e senza quei treni oggi non avremmo nemmeno quella democrazia malata che ci resta. Di quando i fascisti li prendevamo a calci in culo e basta. Che nostalgia di quando eravamo felici perché avevamo delle cose che ci riempivano la vita, cose che non si potevano toccare, astratte - i valori della Resistenza, della giustizia, della libertà, l’orgoglio del lavoro che era dignità e non l’orrore che è oggi, avevamo gli ideali - pensa un po’. Mica ci mangiate con questa roba, compagni. che ci mangiavamo, mi ci sono riempito la pancia per anni, avevano un sapore che ricordo ancora bene ma che oggi non trovo più. Che nostalgia dei Comunisti di una volta e che bisogno ce ne sarebbe ancora oggi perché ancora troppi sono gli spettri che si aggirano per l’Europa: gli spettri accampati nella ex fabbrica di Tito, in Bosnia, in infradito nella neve di gennaio; gli spettri che aleggiano sulle acque del Mediterraneo, che salgono dal profondo come la nebbia - duemilacentotrentatre solo l’anno scorso; gli spettri che nelle nostre campagne non alzano la schiena dalle piante di pomodoro e non cantano blues; gli spettri che si aggirano nelle fabbriche chiuse, abbandonate, sventrate, svendute; gli spettri che si aggirano con uno zaino sulla schiena nelle nostre città; lo spettro onnipresente del ghigno cocainomane degli imprenditori della new economy , che Dio li maledica - se c’è. Che nostalgia dei concerti di Ivan Della Mea, rigorosamente nei Circoli Arci. Quando cantava Della Mea ci toccavamo tutti perché sì, insomma, portava un po’ sfiga, sempre così cupo, pessimista. Lui cantava: ...viva la vita comprata a rate... ….viva il sistema che rende uguali e fa felice chi ha il potere e chi non ce l’ha… Esagerato. Ma se oggi mi guardo attorno tra le vetrine del centro - i ragazzi merce abbaglio compra compra, tutti che si fotografano e non capisco perchè e non lo so se sono felici, hanno giusto le braghe alla moda e nessun futuro - allora mi viene il sospetto che avesse ragione lui, povero Della Mea. Che nostalgia, compagni.
Ci vuole orgoglio di Claudio Marciano Cento anni fa nasceva il Partito Comunista d'Italia. La sua storia ha segnato quella dell'intero Paese. Il comunismo italiano è legato ai valori della democrazia, dell'antifascismo, della redistribuzione della ricchezza e della terra, dei diritti sociali universali, dell'Europa unita, della cultura di massa. Come spiega bene questa bellissima opera di Gioxe De Micheli che ho visto in questo sito, le ragioni per cui il PCI è nato sono ancora tutte in piedi. Ancora oggi il lavoro è mercificato, la ricchezza redistribuita in maniera ineguale, la mobilità sociale è congelata. Eppure oggi non c'è più un soggetto che per programma, valori e personalità, possa trasformare quei bisogni in offerta politica. Le sinistre italiane sono in crisi da trent'anni, incapaci di innovare e di controbilanciare le spinte selettive del capitalismo con ricette apertamente alternative. Io sono cresciuto in anni in cui la parola comunista non si pronunciava più con orgoglio, ma con vergogna. Gli anni del revisionismo storico, dello squallido parallelismo col fascismo (opposti estremismi), dei libri neri del comunismo. Bisognerebbe ritornare ad avere orgoglio di quella meravigliosa parola, a non avere bisogno di precisare altro quando la si utilizza per descrivere il proprio credo politico. Claudio Marciano
Gioxe De Micheli, Tessera del PCI, disegno su cartoncino, 50x30cm, 2020
Renato Guttuso, I funerali di Togliatti, 440x340cm, acrilici su carta applicata a pannelli di legno, 1971-72
Emilio Vedova, pubblicato in Rinascita, anno V, n. 12, dicembre 1948, p. 470
Una bandiera della Comune di Parigi donata alla Direzione nazionale del PCI
La locandina della mostra «Arte contro la barbarie» organizzata da un gruppo di artisti romani, sostenuti dal PCI e da l’Unità. presso la «Galleria di Roma» nella capitale appena liberata, dal 23 agosto fino al 5 settembre 1944. Per approfondire: Chiara Perin, «La vera mostra del fascismo. Arte contro la barbarie a Roma nel 1944». Qui il PDF disponibile in rete:
Graziella Tonon. Architetto, urbanista, docente e poetessa, vive a Milano.
Miklos N.Varga. Scrittore, saggista e poeta, era nato a Milano nel 1932, dove è scomparso nel 2019.
L’arte alla Festa dell’Unità Quella mattina che portai mezzo miliardo su un camion scoperto di Giorgio Seveso
Giorgio Seveso. Sanremo, 1944. Critico d’arte, giornalista e curatore, vive a Milano dal 1969 dove è stato critico dell’Unità per circa trent’anni.
sCARABOCCHI di Francesca Pensa
Francesca Pensa. Storica dell’arte, saggista e insegnante, vive e opera a Milano.
Attilio Pizzigoni. Bergamo, 1947 Architetto, docente e saggista, vive a Bergamo.
Vivian Lamarque. Scrittrice, poetessa e traduttrice, è nata a Tesero (TN) nel 1946. Vive e opera a Milano.
Mauro Corradini. Critico d’arte, giornalista e docente, è nato a Suzzara nel 1939. Vive e lavora a Brescia.
Francesco D’Adamo. Scrittore, è nato a Portogruaro (VE) nel 1949. Vive e opera a Milano.
Claudio Marciano. Nato a Formia nel 1983 è ricercatore all’Università di Torino, dove vive e opera.
I nipotini irrequieti e senza memoria di nonno PCI di Ettore Vittorini Il giorno successivo alle ultime elezioni regionali in Toscana, il vincitore Eugenio Giani, autorevole membro del PD, corse subito a Livorno, la culla del Partito comunista italiano. Non si fermò in città, ma si recò a Montenero, una splendida località in collina che guarda il mare, nota per il suo antico santuario dedicato alla Madonna e per Carlo Goldoni che vi ambientò nel ‘700 la sua commedia “Le smanie della villeggiatura”. Davanti al santuario attendevano Giani il vescovo e un folto gruppo di fotografi e giornalisti. Il neopresidente si era recato in quel luogo di pellegrinaggio per ringraziare la Santa donna “per vittoria ricevuta” e aveva posto un cero davanti alla sua immagine sotto i lampi dei fotografi. Sottolineo che ognuno è libero di professare le proprie idee e la propria fede ma forse un rappresentante di una istituzione della laica Repubblica italiana poteva evitare di pubblicizzare il suo gesto.” Così ha trasformato una festa civile in festa religiosa”, scrive Fabio Baldassarri, un tempo giornalista dell’Unità, in seguito presidente della provincia di Livorno e sindaco di Piombino. Inoltre la Madonna di Montenero fu proclamata nel 1947 “Patrona della Toscana” da Papa Pio XII che vedeva i comunisti come il fumo negli occhi. Probabilmente la scelta di Livorno serviva per propagandare la Fede nella città che allora era la più “rossa” della regione. I risultati elettorali hanno dato a Giani il 48 per cento di voti (31 del Pd) contro il 40 della leghista Susanna Ceccardi ex sindaca di Cascina e nota per aver organizzato nel giorno del 25 aprile del 2018 una sfilata cui partecipava anche un manipolo travestito da SS tedesche. Aggiungo per la cronaca che a Sant’Anna di Stazzema, il paese in cui i nazisti trucidarono 560 persone, la Ceccardi ha ottenuto il 52 per cento. Il tutto è passato quasi inosservato, anche all’interno del Pd. Per l’anniversario della nascita del Partito comunista, Giani è tornato a Livorno e in veste ufficiale ha partecipato alla commemorazione nel teatro Goldoni e poi al San Marco dove nel ’21 si erano trasferiti gli scissionisti. Quest’ultimo teatro fu distrutto dalle bombe durante la seconda guerra mondiale ed è rimasto in macerie per decenni. Una piccola lapide e una corona ricordano l’avvenimento della scissione. Spero che questa premessa possa servire a indicare una delle mutazioni del Partito che un tempo era il più importante dell’Europa occidentale. Non sono e non sono mai stato un fanatico del Pci e mai iscritto, ma sin da piccolo ne ho seguito un pezzo della sua rinascita attraverso i miei genitori, immediatamente dopo la Liberazione. Mia madre, Maria, nel luogo in cui eravamo sfollati nel corso del conflitto partecipò alla Resistenza e diventò comunista. Mio padre Ugo, ufficiale dell’esercito italiano in Slovenia, dopo l’8 settembre rifiutò la resa ai tedeschi e combatté con i partigiani jugoslavi. Di lui per più di un anno non avemmo sue notizie e finalmente ricongiunti, i miei genitori si scoprirono entrambi comunisti. A quei tempi vivevamo a Barletta, una città di 70 mila abitanti, grosso centro agricolo che forniva al latifondo migliaia e migliaia di braccianti. Non esisteva mezzadria. I padroni dei terreni vivevano nelle rare masserie o nei palazzi di città. Anche i contadini abitavano nei centri urbani. A Barletta alloggiavano con moglie e tanti figli nei “bassi”, in uno o due locali senza acqua corrente e servizi igienici. Nella notte anche l’asino veniva ospitato in un angolo dell’abitazione. Tra questa gente i miei genitori incominciarono a fare propaganda per il partito e mio padre, dirigente del Comune, fondò la prima sezione. Mia madre, maestra elementare, la sezione femminile con una ex prostituta, una raccoglitrice di olive e una lavandaia. Le sue ex amiche borghesi di prima della guerra, le tolsero il saluto. Mio padre subiva il controllo continuo della Prefettura e della Questura. Da noi si fermava spesso Giuseppe Di Vittorio. Il Partito gli aveva fornito una vecchia “1100” d’anteguerra per spostarsi nei suoi comizi in Puglia. Dalla Federazione del Pci di Bari venivano in tanti a dare una mano per organizzare comizi, riunioni. Arrivavano col treno portandosi dietro da mangiare e rientravano la sera. Le trattorie, i ristoranti rappresentavano un miraggio. Si dividevano i compiti per andare a parlare con la povera gente, con i contadini, i muratori e i pochi operai, nei paesi e nelle campagne, per far comprendere loro che dovevano reagire alla atavica oppressione dei padroni. Questo accadeva in tutta l’Italia e i frutti si sentirono alle elezioni per la Costituente del 1946. Il Pci in Sicilia era il partito con più voti. Poi vennero le elezioni politiche del 18 aprile del 1948 con una accesa battaglia politica. La Dc con il totale aiuto della Chiesa, il finanziamento degli americani e la polizia di Scelba, si mobilitò in una feroce campagna anticomunista. Ricordo i manifesti elettorali che dicevano: ”Nell’urna Dio ti vede, Stalin no”. Le numerose automobili della Propaganda fide munite di altoparlanti che percorrevano le strade diffondendo canti religiosi. La sconfitta del Fronte Popolare tra PCI e PSI fu netta, tranne in Emilia-Romagna e Toscana. In Sicilia il PCI venne dimezzato, grazie al terrore diffuso dalla mafia e dai suoi burattinai democristiani. La strage di Portella della Ginestra e l’uccisione di alcuni sindacalisti avevano portato il terrore nelle campagne. Dopo quella sconfitta, il partito riprese la sua lenta risalita fino alle elezioni del 1976 quando ottenne il 35 per cento di voti rispetto al 38 della Dc e il 15 del Psi. I numeri dicevano che la sinistra unita avrebbe potuto governare, ma il grande potere che dominava l’Italia e la opprimente sorveglianza degli Stati Uniti non lo avrebbero permesso. Il golpe in Cile di tre anni prima contro Allende avrebbe potuto ripetersi anche da noi. All’attentato di Piazza Fontana ne erano seguiti tanti altri e le radici della loggia massonica P2 si stavano estendendo. Il Pci, che aveva ottenuto la maggioranza alle amministrative di Milano, cedette incomprensibilmente la guida della città ai socialisti della “Milano da bere”. Mario Melloni, il “Fortebraccio dell’Unità” commentò così quella resa: ”I socialisti se ne stanno nel salotto del palazzo a bere champagne, mentre i comunisti rimangono in portineria a bere gazzosa”. E sappiano che fine hanno fatto Craxi e i suoi seguaci a furia di bere! Il declino del Pci, già latente, ha seguito la crisi delle sinistre europee; il fenomeno si è manifestato in pieno dopo la scomparsa di Berlinguer, la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’URSS. Queste sono state le cause più evidenti, ma in realtà l’opinione pubblica e la classe politica erano mutate. Le nuove generazioni cresciute nel boom economico, che ha sviluppato l’economia e non la coscienza sociale e culturale del Paese, non sono state in grado di guidare la massa dei cittadini scontenti, frustrati e abbandonati politicamente. Il PCI si è spento con la chiusura delle sue sezioni, l’inefficienza delle federazioni e gli scontri interni. Il regista Nanni Moretti nel 2002 sottolineò la decadenza quando, salito sul palco di un comizio del Pd in piazza San Giovanni a Roma, disse rivolgendosi ai dirigenti: Non perdete tempo a discutere sul nulla; non fate più capricci ma discutete sul modo di vincere le elezioni e non perdete tempo in continui scontri personalistici sui vertici; sono ripicche che non ci importano più niente”. Qualche anno dopo è arrivato Renzi, un derivato della Dc, un individuo che ha infiammato gli animi, anche di molti vecchi comunisti, con la parola rottamazione e oggi gestisce una partita politica come un giocatore di poker. E pensare che costui ha guidato il Pd e il governo italiano per alcuni anni. Se qualcuno crede che nel Pd sia rimasta qualche fiammella del vecchio PCI, purtroppo si sbaglia. Nella sinistra ci sono persone per bene che portano i ceri per grazia ricevuta e altre, indegne di fare politica, che elogiano l’Arabia Saudita. Non è rimasto altro se non il teatro Goldoni e la lapide al San Marco, in macerie, a Livorno.
Ettore Vittorini. Barletta, 1940. Giornalista, docente e scrittore vive e lavora a Guardistallo (PI).
TESTIMONIANZE Tra i mosaici della memoria e le icone di un immaginario della sinistra, pubblichiamo e continueremo a pubblicare qui una serie di interventi e testimonianze dal mondo della cultura. Testi o poesie, considerazioni, saggi, ricordi e aneddoti, nel segno della traccia che la storia del PCI e le vicende ad essa collegate, magari nel rapporto con l’arte, hanno lasciato nell’animo di molti.
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Ecco alcuni brevi versi scritti da Miklos Varga, amico poeta e critico d’arte, scomparso l’anno scorso. Sappiamo che gli avrebbe fatto piacere partecipare a questa iniziativa.
GRAZIELLA TONON Notte d’occupazione innamorata in un’auto scassata a parlare, parlare di rivoluzione lui con l’eskimo usato lei col montone appena comprato da Max Mara.
Pensando ai giovani, ho scritto alle mie nipotine di Bologna che vedo impegnate in una ricerca ‘di vita’ non solo personale ma anche collettiva, chiedendo loro di descrivermi le loro esperienze con l’associazionismo… Fernanda Fedi L’associazionismo è una risorsa Personalmente non ho mai fatto parte di alcuna associazione, ma mi è capitato recentemente di appoggiare ed assistere alla nascita di una di esse. Qualche mese fa, infatti, raccogliendo informazioni sull’Esame di Stato per l’abilitazione come Psicologo, mi sono imbattuta in un nutrito gruppo di giovani coetanei, laureati in Psicologia, riunitosi in un gruppo su Facebook con l’obiettivo di discutere, proporre e promuovere possibili riforme dell’attuale Esame di Stato e tirocinio post-lauream, percepito dai più, e dalla sottoscritta, come un ennesimo ostacolo e rallentamento a un percorso di formazione già di per sé lungo e mai rinnovato negli anni. Da un semplice gruppo su un social network, la condivisione degli ideali e il desiderio di rinnovamento ha portato alla nascita di una vera e propria associazione, che conta attualmente più di 10000 partecipanti e che, dopo un’incessante attività di divulgazione e una serie di manifestazioni organizzate in tutte le piazze d’Italia è riuscita ad aprire un dialogo con il ministro dell’Istruzione, che, in risposta alle richieste portate avanti, ha deciso di proporre un disegno di legge per rendere abilitanti alcune lauree, tra cui quella di Psicologo (con l’obiettivo appunto di abolire il contestato Esame di Stato- esistente peraltro solo in Italia). Ho seguito da vicino tutte le “battaglie” portate avanti da questo gruppo di giovani e i risultati, che con mia grande sorpresa, ogni volta sono riusciti a portare a casa. Non nascondo di essere rimasta molto colpita dalla loro intraprendenza e perseveranza.  Ho avuto un esempio tangibile di come l’associazionismo sia una risorsa importante per la realizzazione di scopi condivisi con il fine ultimo di un rinnovamento sociale. Carlotta Fedi Nuova Acropoli è un’associazione che si occupa di filosofia, volontariato e cultura. Obiettivi: 1.Promuovere il rispetto della dignità umana senza distinzione di credenze, culture e condizioni sociali, riunendo gli uomini e le donne attorno ad un ideale di fraternità e solidarietà.  2.Promuovere la concordia tra tutti gli esseri umani senza distinzione attraverso lo studio comparato dei valori umani e l’azione solidale.  3.Sviluppare le capacità dell’individuo affinché possa integrarsi nella Natura ed ampliare le qualità della sua personalità attraverso la sua azione.   Mi sono affacciata a questa associazione perché proponevano un corso di filosofia attiva e in quel periodo ero alla ricerca di risposte a dubbi esistenziali ed ero curiosa di approfondire la filosofia, una materia che non studiavo a scuola. Sono stata membro dell’associazione per un paio d’anni e insieme abbiamo fatto tante cose: ho partecipato a un corso di filosofia attiva, a un campo estivo legato alla protezione civile, incontri culturali rivolti al pubblico e a un progetto di riqualificazione di un parco. Oltre a ciò, ho vissuto a pieno la vita associativa partecipando a cene, riunioni, raduni e attività di promozione dell’associazione. Durante il periodo passato in associazione mi sono trovata molto bene e la cosa che mi ha colpito di più è stato il forte spirito di gruppo e la chiara direzione di dove, come gruppo, stessimo andando. Mi sono trovata molto bene fino a quando, mese dopo mese, ho iniziato a vedere in maniera più distaccata il gruppo e tutti gli insegnamenti. Da quel distacco ho capito che avevo voglia di approfondire altre cose e scoprire nuovi punti di vista.   Nuova Acropoli mi ha insegnato tantissime cose, mi ha ispirato e aiutato dandomi diversi punti di vista sulla vita, dall’occidente all’oriente e creando in me un legame stretto tra pensiero e azione. Applicare e non teorizzare. Parrocchia Frequento la parrocchia da quando ho 12 anni. Inizialmente sono stata invitata da una amica a partecipare al gruppo dei giovani, un pomeriggio a settimana dove prima si gioca a pallone e poi si fa un’oretta d’incontro. Quando ti affacci ad una realtà così strutturata mano a mano che cresci ogni anno ci sono nuove proposte di attività a cui partecipare, nel mio caso prima «Estate ragazzi» come animatrice poi il catechismo. La cosa che trovo più bella della parrocchia è il gruppo. ho conosciuto tutti i miei più cari amici e ho fatto tantissime esperienze. La contraddizione più grande invece è che la maggior parte dei giovani, almeno nella mia parrocchia, ci va per fare attività insieme e divertirsi, non per interesse legato alla fede.   Voolo Voolo è il progetto che ho creato per rendere più accessibile il mondo del volontariato ai giovani attraverso una piattaforma digitale che raccoglie varie opportunità di volontariato presenti sul territorio. Attualmente stiamo conoscendo le associazioni del territorio, sia legate al volontariato sia a carattere culturale con l’obiettivo di diffonderle tra i giovani. In questo periodo stiamo intervistando chi sta dietro ad ognuna di esse. Quello che colpisce è il loro credere profondamente nel loro progetto e il bisogno ,sempre crescente, di avere nuovi giovani che possano aiutarli.  Francesca Fedi
L’arte alla Festa dell’Unità Quella mattina che portai mezzo miliardo su un camion scoperto di Giorgio Seveso È il 21 agosto 1964 quando l’agenzia di stampa Ansa diffonde la notizia: «Con profondo dolore la segreteria del Pci annuncia la morte del compagno Palmiro Togliatti (1893-1964), avvenuta oggi a Jalta alle ore 13.20». L’Unità, organo ufficiale del partito, esce in edizione straordinaria con la prima pagina listata a lutto e la scritta “Togliatti è morto”. Le esequie si tengono a Roma il 25 agosto del 1964, alla presenza di una folla immensa. Sei anni dopo, Renato Guttuso inizia a lavorare a un’opera straordinaria che appunto titolerà “I funerali di Togliatti”: quattro metri e quaranta la lunghezza per tre e quaranta l’ altezza, circa quindici metri quadrati di pittura acrilica su carta, successivamente applicata a quattro pannelli d legno compensato uniti tra loro. Tra bozzetti e studi, l’opera viene su a poco a poco nella tranquillità del suo studio di Velate, lontano dalle distrazioni dei salotti romani, con quasi centocinquanta figure tra le quali almeno trentatré ritratti identificabili e un cospicuo numero di altre figure, bandiere e quant’altro. Viene terminata a metà del 1972, in tempo per partire alla volta di Mosca con altre novantatré opere, dagli esordi del 1931 al presente, scelte da Guttuso per essere allestite in dieci sale dell’Accademia di Belle Arti di Mosca e in parte all’Ermitage: di fatto la sua mostra più completa all’estero fino ad allora, che viaggerà poi per molti mesi in altre capitali dell’Est. L’occasione è il conferimento dell’ambìto Premio Lenin, la più alta onorificenza internazionale dell’URSS “per il consolidamento della pace fra i popoli”, già assegnata a Neruda, Alberti, Picasso ecc. Un anno dopo, ai primi di settembre del 1973, si inaugura a Milano la grande Festa Nazionale dell’Unità al Parco Sempione, la prima da quando Enrico Berlinguer è segretario nazionale, e Gianni Cervetti, segretario della Federazione milanese, chiama a una straordinaria mobilitazione dei militanti perché il lavoro da fare è immenso. C’è da costruire una sorta di “città nella città”, teatri, palchi, ristoranti, ristori ecc. rispettando il verde del parco, tempi strettissimi e l’ambizione di rinnovare il senso e il “tono” fino ad allora un po’ strapaesano e festaiolo di iniziative di massa come quella. Si mette mano all’organizzazione di una vera e propria TV della Festa, si costruiscono innovative tensostrutture, Giò Pomodoro progetta il palco principale di Piazza del Cannone, si pensa anche all’arte e alla pittura, e Mario De Micheli, critico d’arte dell’Unità, ha un’idea, chiedere a Guttuso (che nel frattempo ha donato al PCI il grande quadro dei “Funerali”) di ospitarlo al Festival. È detto e subito fatto. Partono telefonate e fax (erano le mail dell’epoca) e la cosa è decisa. Si costruirà uno stand apposito, e a fine agosto, a pochi giorni dall’inizio, il quadro, smontato e imballato, arriverà in aereo a Linate da Mosca. E qui nel racconto entro io, ventottenne critico d’arte che Mario aveva chiamato a Milano tre anni prima per essere suo vice all’Unità milanese e per collaborare alle sue molte iniziative espositive e culturali. La mattina prevista dell’arrivo, infatti, in Federazione ci si accorge che per qualche motivo nessuno ha pensato al trasporto dell’opera da Linate al Parco Sempione (il Partito può essere anche questo). Tempo di ferie, trasportatori specializzati d’arte chiusi o introvabili, si decide allora di “fare in casa” mandando uno dei camion attivi per il cantiere del Festival. Solo sarà bene che il trasporto, data la particolarità dell’oggetto trasportato, venga supervisionato da un militante “esperto”. Ecco dunque che arriva la telefonata al giovane compagno critico. Raccomandazioni pressanti, richiami alla massima attenzione e responsabilità, e poi… la botta: “Tieni presente che è assicurato per cinquecento milioni!” Insomma, una cifra quel mezzo miliardo di lire decisamente astronomica per allora, e che mi entrò nella coscienza come un brivido gelato alla schiena. Mi spiegano dove passare a prendere la documentazione doganale per il ritiro, dove incontrare camionista e camion già sul posto a Linate, quando partire (subito). E dunque vado subito, non ben sicuro se esserne fiero o preoccupato. A Linate, mi accorgo che era giusta la seconda. Il veicolo che mi trovo di fronte infatti è un camioncino scoperto, con due sponde a liste di legno un po’ sgangherate, un pianale ingombro di barattoli e cartoni e una ribaltina chiusa con fil di ferro essendo rotti entrambi gli appositi ganci di chiusura. I famosi potenti mezzi dunque. Solo che c’è poco da sorridere! Sì, perché l’altra sorpresa, stavolta preparata dal mittente, cioè dai compagni sovietici, consiste nello scoprire che le quattro casse in cui è smontata la preziosa ma fragile opera (si tratta in definitiva di carta dipinta applicata a pannelli di legno) non sono contenitori interi, ben chiusi e stagni. Sono invece strutture a telaio, con listelli robusti e distanziati e spessori interni di polistirolo, buone certo a difendere egregiamente il contenuto da urti e scossoni, ma ben poco funzionali contro agenti nocivi esterni quali, per esempio, polvere o pioggia. Dalle larghe aperture di tali intelaiature costellate di etichette scritte in cirillico, difesa solo da uno strato di spessa carta velina (il pluriboll ancora non esisteva mi pare, o non era ancora arrivato a Mosca) si intravede distintamente la superfice dipinta, e fiammeggiano gli strepitosi colori di Guttuso, l’energia robusta delle sue immagini nel rosso di una bandiera, nel profilo di un pugno chiuso o di un viso a grandezza naturale. E il cielo, in quella tarda mattinata di fine agosto, è piuttosto temporalesco, mentre il mio camion è, e resta, desolatamente scoperto. Il senso della responsabilità (un capolavoro insostituibile! mezzo miliardo!), fino ad allora sospeso come un sottofondo teorico in un angolo della mente, viene clamorosamente, angosciosamente a galla nell’attimo in cui mi rendo conto, assieme al guidatore del camion, che per coprire l’opera non disponiamo che di un paio di improbabili teloncini (poco più di lenzuoli, evidentemente usati durante i tinteggiamenti degli stand) e di un po’ di cordami e nastri di varia natura. Ognuno combatte la propria battaglia con le armi che ha! Ci mettiamo dunque a ripulire il pianale e a fissare il più saldamente possibile il carico dei contenitori alle sponde, coprendolo il meglio che si può. Facciamo qualche prova di partenza e frenata (non dimenticherò mai i sinistri, inquietanti cigolii prodotti dallo sfregamento delle casse tra di loro), e ci avviamo in lenta colonna su viale Forlanini, camion davanti e io dietro, tenendo gli occhi al cielo e le dita freneticamente incrociate. Alea iacta est! È stata una delle ore più angosciose della mia vita, che oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, ripenso ancora con i sudori freddi. Ai semafori rossi il tempo non sembrava passare mai, gli altri veicoli ci sorpassavano strombazzando e imprecando, ogni sussulto delle ruote sui binari del tram mi entrava nel cuore come una coltellata. Per non dire delle gocce di pioggia che di tanto in tanto venivano minacciosamente a costellare il parabrezza... L’arrivo su via Legnano e l’ingresso sotto lo striscione del Festival fu la conquista della terra promessa, il definitivo sollievo che ripagò le mie tribolazioni. Giorgio Seveso All’ultimo momento riuscimmo ad esporre anche lo spettacolare dipinto «La via italiana al socialismo», che Aurelio C. (Aurelio Ceccarelli) con i suoi collaboratori Leonardo Giulietti e Giorgio Cardarelli aveva appena terminato per il Circolo Valentia di Valenza Po, oggi conservato presso la Fondazione Luigi Longo di Alessandria. Venti metri di lunghezza per tre di altezza, un’immagine immensa e imponente di formidabile impatto narrativo e scenografico, al cui cospetto non pochi nella fiumana di visitatori che vi scorreva davanti si levavano il cappello. Ma stavolta quell’opera , sia all’andata che al ritorno, fu trasportata direttamente dai compagni di Valenza.
Renato Guttuso, I funerali di Togliatti, 440x340cm, acrilici su carta applicata a pannelli di legno, 1971-72 Aurelio C, La via italiana al socialismo, 1972-73, acrilici su pannelli, 20metri x 3metri
sCARABOCCHI di Francesca Pensa È noto a tutti ciò che avvenne nel 1948, quando Palmiro Togliatti, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, recensendo sul numero di novembre della rivista Rinascita una mostra tenuta a Bologna, scrisse parole che segnarono profondamente l'arte italiana di quel tempo. L'esposizione, aperta dal 17 ottobre al 5 novembre al Palazzo del Re Enzo, era intitolata ‘’Prima mostra nazionale d'arte contemporanea’’ ed era stata organizzata dall'Alleanza per la Difesa della Cultura, creata in quell'anno nell'ambito del Fronte Democratico Popolare, contando, nel Comitato d'onore, intellettuali come Cesare Gnudi, Francesco Arcangeli e Giuseppe Raimondi. Ecco quanto scritto da Togliatti: «È una raccolta di cose mostruose; riproduzioni di cosiddetti quadri, disegni e sculture che a cura dell' Alleanza della Cultura di Bologna sono stati esposti in quella città in una “Prima (sic) mostra nazionale d'arte (resic) contemporanea”. Come si fa a chiamare “arte”, e persino “arte nuova” questa roba, e come mai hanno potuto trovarsi a Bologna, che pure è città di così spiccate tradizioni culturali e artistiche, tante brave persone disposte a avallare con la loro autorità, davanti al pubblico, questa esposizione di orrori e di scemenze come un avvenimento artistico? Diciamo la verità: queste brave persone la pensano come noi tutti; nessuno di loro ritiene o sente che sia opera d'arte uno qualsiasi degli scarabocchi qui riprodotti, ma forse credono che per apparire “uomini di cultura” sia necessario, davanti a queste cose, darsi l'aria di superintenditore e superuomo e biascicare frasi senza senso. Suvvia! Abbiate coraggio! Fate come il ragazzino della novella di Andersen: dite ch'è nudo il re; e che uno scarabocchio è uno scarabocchio. Ci guadagnerete voi perché sarete stati sinceri, e gli artisti, o pretesi tali, certo s'arrabbieranno sulle prime, ma poi farà bene anche a loro». (Roderigo di Castiglia, Segnalazioni, in Rinascita, anno V, n. 11, novembre 1948, p. 424). Sono parole che ancor oggi suscitano sconcerto e stupore, soprattutto se si considera chi erano gli artisti espositori, che volevano appunto rappresentare uno spaccato significativo della situazione dell'arte contemporanea: accanto ad alcuni dei componenti del Fronte Nuovo delle Arti come Renato Birolli, Antonio Corpora, Renato Guttuso, Ennio Morlotti, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Emilio Vedova, erano presenti altri artisti quali Afro, Corrado Cagli, Bruno Cassinari, Alfredo Chighine, Franco Francese, Pompilio Mandelli, Piero Martina, Gino Meloni, Giovanni Omiccioli, Cesare Peverelli, Ampelio Tettamanti, Ernesto Treccani, Mirko, Vittorio Tavernari: insomma, una consistente parte di coloro che sarebbero diventati i più importanti e rappresentativi protagonisti della scena artistica italiana del secondo novecento. ( … )
Emilio Vedova, pubblicato in Rinascita,  anno V, n. 12, dicembre 1948, p. 470
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Ecco una bella iniziativa della Fondazione Cento Fiori di Savona e dell’associazione Enrico Berlinguer
1871-1921 / 1991-2021 di Attilio Pizzigoni «Le azioni creano sogni e non viceversa» dal “Che fare” di Nikolaj Černyševskij 21 gennaio 2021 - Giorno di celebrazioni. Cerimonia e memoria di un evento passato, da ricordare. Ripresa o ripetizione. Riferimento nel quale identificarsi o traccia di un futuro da compiere. Nostalgia, revisione, speranza. Eterno ritorno o completamento di un’azione interrotta. Modelli da seguire, disfatte da scongiurare. Mito o fantasma della Comune. Mito o fantasma della Rivoluzione d’Ottobre. Forse è una strana legge dei numeri quella che cade in questo anno e che non solo ci riporta al centesimo anniversario dalla nascita del Partito Comunista in Italia, ma anche a quella che trent’anni or sono, nel 20° Congresso del 1991, portò al suo scioglimento. Ho sempre pensato che fosse un grande errore aver chiuso quell’esperienza politica proprio nel momento in cui il venir meno delle cortine ideologiche e geografiche avrebbe liberato la battaglia politica dai fantasmi delle tragedie staliniane che avevano macchiato così profondamente, e forse distrutto, la memoria di un’utopia realizzata. Ogni data, ogni anno, ogni volta, è l’identica ricerca di una guida per agire, per tornare a discutere delle inesorabili logiche, degli inevitati errori, delle incrollabili speranze. Il tema rimane quello delle contraddizioni tra il 1789 e il 1793, tra il 14 luglio e il 18 brumaio, dalla festa comunitaria al giacobinismo fino al centralismo statale che inevitabilmente riporta allo sciovinismo. Ma nei corsi e ricorsi di queste date, entusiasmanti e terribili, quella che più mi sobbalza nel cuore é quella dei 72 giorni parigini che vanno dal 18 marzo al 28 maggio del 1871. È l’esperienza della Comune Parigina, con i suoi Manifesti, quello delle Donne Internazionali, e quello altrettanto forte degli Artisti, è quella la storia che ancora oggi sa travolgerci come data che ci indirizza a una visione di futuro. La Comune, con tutta la sua evidenza di utopia concreta, che ci travolge nella visione di futuri possibili, che attualizza e un senso e una visione sempre attuale alla lunga e ininterrotta vicenda di lotte per la dignità dell’uomo e per la dimensione democratica e comunitaria del lavoro. Celebrazione, non come commemorazione di un fatto ma come liberazione di un possibile. È lo spazio della Comune che leggiamo nelle poesie di Rimbaud, nella canzone Le temps des cerises, sono occhi contemporanei quelli con cui guardiamo le figure di Louise Michel e di Elisabeth Dmitrieff. Sono quei 72 giorni di una primavera di 150 anni or sono che ancora ci coinvolgono perché da sono nati gli ideali della modernità. Oggi non guardiamo più alla Comune come a un mito crollato, come ad un errore di utopia da superare nella prospettiva di realizzare un comunismo dal basso. Questi furono i sentimenti che animarono la Rivoluzione d’Ottobre e certamente anche lo stesso spirito di Livorno; il nostro “’21” se avrà da esserci, non potrà essere la ricerca di un antidoto al fallimento del 1871, non può essere quello che aveva cantato Lenin al settantatreesimo giorno dopo la presa del Palazzo d’Inverno ballando felice nella neve perché la loro rivoluzione era durata un giorno di più di quella parigina. Se gli ideali della Comune di Parigi sono sempre più attuali, non è per rivendicare rivincite o primati, ma perché vediamo sempre più fermi e concreti, davanti a noi, quei necessari percorsi di emancipazione in cui il lavoro possa ritrovare quella dignità capace di dare piacere e felicità, all’interno di una società capace di ineguaglianze sociali. È nella prospettiva di un lavoro liberato da ogni reificazione del profitto che queste celebrazioni trovano il loro significato, nel senso di quella frase con cui si concludeva il Manifesto degli Artisti della Comune, che ancora risuona in tutta la sua attualità e lucidità di un progetto sociale: Lavoreremo insieme per la nostra rigenerazione, il benessere e la felicità comune, gli splendori futuri e la Repubblica Universale. ” Ecco, è sull’eco di quelle parole che vorremmo leggere la solennità di questa ricorrenza. Attilio Pizzigoni
Una bandiera della Comune di Parigi. Fu donata alla Direzione nazionale del PCI, che la fece collocare all'interno della parete/monumento di Gio Pomodoro, nell'atrio del palazzo di via Botteghe Oscure a Roma.
NON VOLEVO NON VOLEVO NON VOLEVO CHE GLI CAMBIASSERO NOME di Vivian Lamarque UNO. Sono passati cento o centomila anni? DUE. Non volevo non volevo non volevo che gli cambiassero nome. Scrissi persino a Roma supplicandoli e loro gentilmente mi risposero. Devo cercarla quella lettera. TRE. Non volevo non volevo che il computer si chiamasse pc e soprattutto che si pronunciasse pici, non mi rassegnavo. Ancora oggi lo chiamo computer. QUATTRO. Quando ho nostalgia (non degli errori, di tutto il resto) mi guardo certi quadri, per esempio quelli di Gioxe De Micheli (lì non ci sono gli errori, c’è tutto il resto) e leggo le vite di alcuni, per esempio quella di Gandhi (lo so che qui non c'entra, ma è il mio consolatore prediletto). CINQUE. Ora sto leggendo l’Epistolario della famiglia Rosselli, madre e tre figli maschi. Si pensa sempre a due, Carlo e Nello, trucidati come si sa, a 38 e 37 anni, vicino a Parigi, dai sicari Cagoulard che agivano per ordine di Mussolini. Però, povera madre, ventenne aveva perso anche il primogenito Aldo, sul fronte carnico, durante la prima guerra mondiale. Scrisse Carlo molti anni dopo, hai creato tre vite che non saranno numeri vani, non lasceranno l’ambiente così come lo trovarono, bruceranno forse tutt’e tre, ma per aver cercato di avvicinarsi troppo alla luce” . Vivian Lamarque
MIKLOS N. VARGA
Un aspetto meno noto di una bella iniziativa L’arte contro la barbarie, Roma 1944 di Mauro Corradini Mi viene in mente quella volta che i nostri "padri" fecero un gesto d’arte davvero splendido e, insieme, quantomeno insolito settantacinque anni fa, in piena guerra e in piena occupazione, quando Roma, in anticipo d’un anno rispetto all’Italia settentrionale, fu liberata da nazismo e fascismo. Come è noto, proprio a Roma il 23 agosto 1944, con il patrocinio del quotidiano L'Unità, fu organizzata dagli artisti una mostra, giustamente titolata "L'arte contro la b a r b a r i e " . Conosciamo tutti le "Fantasie" di Mafai o il "Gott mit Uns" di Guttuso, opere che vi si videro in pubblico per la prima volta, insieme a molte altre. Forse meno noto, però, è il percorso iniziale (così è stato descritto), di cui non è rimasta traccia. Quale? Sei opere "rifatte", sei copie (chi poteva chiedere un prestito allora? e a chi chiederlo?), che tracciavano, nella mente dei curatori, un percorso esemplare nell'arte europea di impegno sociale e politico. Difatti, Mario Mafai rifece "La libertà guida il popolo", di Eugène Delacroix; Renato Guttuso rifece, di Goya, «Le fucilazioni del 3 di maggio»; Giulio Turcato, «La difesa di Pietrogrado» di Deineka; Antonio Di Mata copiò «O Roma o morte» di Gioacchino Toma. infine Ugo Rambaldi rifece «A Marat» di Jacques-Louis David e Mirko l’altorilievo di Francois Rude «La Marsigliese», collocato sull’Arc de Triomphe di Parigi. Non è rimasto nulla di quelle copie (o meglio: rifacimenti); però ricordarle potrebbe essere un'indicazione, su cui molti potrebbero oggi intervenire, aprendo commenti, riflessioni, e meditazioni (non necessariamente solo di storia e critica d'arte). Non si tratta di commentare, ma riflettere su un percorso, elaborato da un gruppo di artisti in quella calda estate romana del 1944. E di ricordare, anche, la natura e il senso dell’eccezionale "manualità" che quei nostri artisti seppero esprimere per l’occasione, così alta e insieme considerata così "normale" al punto di non conservare traccie riproduzioni di quei cartoni, bozzetti, disegni e dipinti... Magari - e sarebbe bello - scopriremo che qualcuno ha ancora in soffitta qualche documento o qualche foto di quella mostra! Mauro Corradini
La scarna locandina de "L'arte contro la barbarie", alla Galleria di Roma, dal 23 agosto a 5 settembre 1944.
CHE NOSTALGIA! di Francesco D’Adamo Delle serate passate in Sezione o alla Casa del Popolo per il dibattito o per provare a rimorchiare una compagna; delle albe gelate d’inverno in via Rubattino, con il megafono davanti all’Innocenti, cambio turno, solo un incerto filo di luce all’orizzonte, lo stupore della sirena e gli operai che uscivano assonnati in bilico sulla bici nel nebiùn ; di quando eravamo noi ; di quando cantavamo; di quando passavamo le notti d’estate a discutere sul marciapiede fino a quando non ci arrivava una secchiata d’acqua dal secondo piano. Che nostalgia dei treni speciali che andavano a Roma, dieci ore di viaggio e sigarette Gitanes - e una volta fino a Reggio Calabria con le bombe sui binari - e senza quei treni oggi non avremmo nemmeno quella democrazia malata che ci resta. Di quando i fascisti li prendevamo a calci in culo e basta. Che nostalgia di quando eravamo felici perché avevamo delle cose che ci riempivano la vita, cose che non si potevano toccare, astratte - i valori della Resistenza, della giustizia, della libertà, l’orgoglio del lavoro che era dignità e non l’orrore che è oggi, avevamo gli ideali - pensa un po’. Mica ci mangiate con questa roba, compagni. che ci mangiavamo, mi ci sono riempito la pancia per anni, avevano un sapore che ricordo ancora bene ma che oggi non trovo più. Che nostalgia dei Comunisti di una volta e che bisogno ce ne sarebbe ancora oggi perché ancora troppi sono gli spettri che si aggirano per l’Europa: gli spettri accampati nella ex fabbrica di Tito, in Bosnia, in infradito nella neve di gennaio; gli spettri che aleggiano sulle acque del Mediterraneo, che salgono dal profondo come la nebbia - duemilacentotrentatre solo l’anno scorso; gli spettri che nelle nostre campagne non alzano la schiena dalle piante di pomodoro e non cantano blues; gli spettri che si aggirano nelle fabbriche chiuse, abbandonate, sventrate, svendute; gli spettri che si aggirano con uno zaino sulla schiena nelle nostre città; lo spettro onnipresente del ghigno cocainomane degli imprenditori della new economy , che Dio li maledica - se c’è. Che nostalgia dei concerti di Ivan Della Mea, rigorosamente nei Circoli Arci. Quando cantava Della Mea ci toccavamo tutti perché sì, insomma, portava un po’ sfiga, sempre così cupo, pessimista. Lui cantava: ...viva la vita comprata a rate... ….viva il sistema che rende uguali e fa felice chi ha il potere e chi non ce l’ha… Esagerato. Ma se oggi mi guardo attorno tra le vetrine del centro - i ragazzi merce abbaglio compra compra, tutti che si fotografano e non capisco perchè e non lo so se sono felici, hanno giusto le braghe alla moda e nessun futuro - allora mi viene il sospetto che avesse ragione lui, povero Della Mea. Che nostalgia, compagni. Francesco D’Adamo
Ci vuole orgoglio di Claudio Marciano Cento anni fa nasceva il Partito Comunista d'Italia. La sua storia ha segnato quella dell'intero Paese. Il comunismo italiano è legato ai valori della democrazia, dell'antifascismo, della redistribuzione della ricchezza e della terra, dei diritti sociali universali, dell'Europa unita, della cultura di massa. Come spiega bene questa bellissima opera di Gioxe De Micheli che ho visto in questo sito, le ragioni per cui il PCI è nato sono ancora tutte in piedi. Ancora oggi il lavoro è mercificato, la ricchezza redistribuita in maniera ineguale, la mobilità sociale è congelata. Eppure oggi non c'è più un soggetto che per programma, valori e personalità, possa trasformare quei bisogni in offerta politica. Le sinistre italiane sono in crisi da trent'anni, incapaci di innovare e di controbilanciare le spinte selettive del capitalismo con ricette apertamente alternative. Io sono cresciuto in anni in cui la parola comunista non si pronunciava più con orgoglio, ma con vergogna. Gli anni del revisionismo storico, dello squallido parallelismo col fascismo (opposti estremismi), dei libri neri del comunismo. Bisognerebbe ritornare ad avere orgoglio di quella meravigliosa parola, a non avere bisogno di precisare altro quando la si utilizza per descrivere il proprio credo politico. Claudio Marciano
Gioxe De Micheli, Tessera del PCI, disegno su cartoncino, 50x30cm, 2020
I nipotini irrequieti e senza memoria di nonno PCI di Ettore Vittorini Il giorno successivo alle ultime elezioni regionali in Toscana, il vincitore Eugenio Giani, autorevole membro del PD, corse subito a Livorno, la culla del Partito comunista italiano. Non si fermò in città, ma si recò a Montenero, una splendida località in collina che guarda il mare, nota per il suo antico santuario dedicato alla Madonna e per Carlo Goldoni che vi ambientò nel ‘700 la sua commedia “Le smanie della villeggiatura”. Davanti al santuario attendevano Giani il vescovo e un folto gruppo di fotografi e giornalisti. Il neopresidente si era recato in quel luogo di pellegrinaggio per ringraziare la Santa donna “per vittoria ricevuta” e aveva posto un cero davanti alla sua immagine sotto i lampi dei fotografi. Sottolineo che ognuno è libero di professare le proprie idee e la propria fede ma forse un rappresentante di una istituzione della laica Repubblica italiana poteva evitare di pubblicizzare il suo gesto.” Così ha trasformato una festa civile in festa religiosa”, scrive Fabio Baldassarri, un tempo giornalista dell’Unità, in seguito presidente della provincia di Livorno e sindaco di Piombino. Inoltre la Madonna di Montenero fu proclamata nel 1947 “Patrona della Toscana” da Papa Pio XII che vedeva i comunisti come il fumo negli occhi. Probabilmente la scelta di Livorno serviva per propagandare la Fede nella città che allora era la più “rossa” della regione. I risultati elettorali hanno dato a Giani il 48 per cento di voti (31 del Pd) contro il 40 della leghista Susanna Ceccardi ex sindaca di Cascina e nota per aver organizzato nel giorno del 25 aprile del 2018 una sfilata cui partecipava anche un manipolo travestito da SS tedesche. Aggiungo per la cronaca che a Sant’Anna di Stazzema, il paese in cui i nazisti trucidarono 560 persone, la Ceccardi ha ottenuto il 52 per cento. Il tutto è passato quasi inosservato, anche all’interno del Pd. Per l’anniversario della nascita del Partito comunista, Giani è tornato a Livorno e in veste ufficiale ha partecipato alla commemorazione nel teatro Goldoni e poi al San Marco dove nel ’21 si erano trasferiti gli scissionisti. Quest’ultimo teatro fu distrutto dalle bombe durante la seconda guerra mondiale ed è rimasto in macerie per decenni. Una piccola lapide e una corona ricordano l’avvenimento della scissione. Spero che questa premessa possa servire a indicare una delle mutazioni del Partito che un tempo era il più importante dell’Europa occidentale. Non sono e non sono mai stato un fanatico del Pci e mai iscritto, ma sin da piccolo ne ho seguito un pezzo della sua rinascita attraverso i miei genitori, immediatamente dopo la Liberazione. Mia madre, Maria, nel luogo in cui eravamo sfollati nel corso del conflitto partecipò alla Resistenza e diventò comunista. Mio padre Ugo, ufficiale dell’esercito italiano in Slovenia, dopo l’8 settembre rifiutò la resa ai tedeschi e combatté con i partigiani jugoslavi. Di lui per più di un anno non avemmo sue notizie e finalmente ricongiunti, i miei genitori si scoprirono entrambi comunisti. A quei tempi vivevamo a Barletta, una città di 70 mila abitanti, grosso centro agricolo che forniva al latifondo migliaia e migliaia di braccianti. Non esisteva mezzadria. I padroni dei terreni vivevano nelle rare masserie o nei palazzi di città. Anche i contadini abitavano nei centri urbani. A Barletta alloggiavano con moglie e tanti figli nei “bassi”, in uno o due locali senza acqua corrente e servizi igienici. Nella notte anche l’asino veniva ospitato in un angolo dell’abitazione. Tra questa gente i miei genitori incominciarono a fare propaganda per il partito e mio padre, dirigente del Comune, fondò la prima sezione. Mia madre, maestra elementare, la sezione femminile con una ex prostituta, una raccoglitrice di olive e una lavandaia. Le sue ex amiche borghesi di prima della guerra, le tolsero il saluto. Mio padre subiva il controllo continuo della Prefettura e della Questura. Da noi si fermava spesso Giuseppe Di Vittorio. Il Partito gli aveva fornito una vecchia “1100” d’anteguerra per spostarsi nei suoi comizi in Puglia. Dalla Federazione del Pci di Bari venivano in tanti a dare una mano per organizzare comizi, riunioni. Arrivavano col treno portandosi dietro da mangiare e rientravano la sera. Le trattorie, i ristoranti rappresentavano un miraggio. Si dividevano i compiti per andare a parlare con la povera gente, con i contadini, i muratori e i pochi operai, nei paesi e nelle campagne, per far comprendere loro che dovevano reagire alla atavica oppressione dei padroni. Questo accadeva in tutta l’Italia e i frutti si sentirono alle elezioni per la Costituente del 1946. Il Pci in Sicilia era il partito con più voti. Poi vennero le elezioni politiche del 18 aprile del 1948 con una accesa battaglia politica. La Dc con il totale aiuto della Chiesa, il finanziamento degli americani e la polizia di Scelba, si mobilitò in una feroce campagna anticomunista. Ricordo i manifesti elettorali che dicevano: ”Nell’urna Dio ti vede, Stalin no”. Le numerose automobili della Propaganda fide munite di altoparlanti che percorrevano le strade diffondendo canti religiosi. La sconfitta del Fronte Popolare tra PCI e PSI fu netta, tranne in Emilia-Romagna e Toscana. In Sicilia il PCI venne dimezzato, grazie al terrore diffuso dalla mafia e dai suoi burattinai democristiani. La strage di Portella della Ginestra e l’uccisione di alcuni sindacalisti avevano portato il terrore nelle campagne. Dopo quella sconfitta, il partito riprese la sua lenta risalita fino alle elezioni del 1976 quando ottenne il 35 per cento di voti rispetto al 38 della Dc e il 15 del Psi. I numeri dicevano che la sinistra unita avrebbe potuto governare, ma il grande potere che dominava l’Italia e la opprimente sorveglianza degli Stati Uniti non lo avrebbero permesso. Il golpe in Cile di tre anni prima contro Allende avrebbe potuto ripetersi anche da noi. All’attentato di Piazza Fontana ne erano seguiti tanti altri e le radici della loggia massonica P2 si stavano estendendo. Il Pci, che aveva ottenuto la maggioranza alle amministrative di Milano, cedette incomprensibilmente la guida della città ai socialisti della “Milano da bere”. Mario Melloni, il “Fortebraccio dell’Unità” commentò così quella resa: ”I socialisti se ne stanno nel salotto del palazzo a bere champagne, mentre i comunisti rimangono in portineria a bere gazzosa”. E sappiano che fine hanno fatto Craxi e i suoi seguaci a furia di bere! Il declino del Pci, già latente, ha seguito la crisi delle sinistre europee; il fenomeno si è manifestato in pieno dopo la scomparsa di Berlinguer, la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’URSS. Queste sono state le cause più evidenti, ma in realtà l’opinione pubblica e la classe politica erano mutate. Le nuove generazioni cresciute nel boom economico, che ha sviluppato l’economia e non la coscienza sociale e culturale del Paese, non sono state in grado di guidare la massa dei cittadini scontenti, frustrati e abbandonati politicamente. Il PCI si è spento con la chiusura delle sue sezioni, l’inefficienza delle federazioni e gli scontri interni. Il regista Nanni Moretti nel 2002 sottolineò la decadenza quando, salito sul palco di un comizio del Pd in piazza San Giovanni a Roma, disse rivolgendosi ai dirigenti: Non perdete tempo a discutere sul nulla; non fate più capricci ma discutete sul modo di vincere le elezioni e non perdete tempo in continui scontri personalistici sui vertici; sono ripicche che non ci importano più niente”. Qualche anno dopo è arrivato Renzi, un derivato della Dc, un individuo che ha infiammato gli animi, anche di molti vecchi comunisti, con la parola rottamazione e oggi gestisce una partita politica come un giocatore di poker. E pensare che costui ha guidato il Pd e il governo italiano per alcuni anni. Se qualcuno crede che nel Pd sia rimasta qualche fiammella del vecchio PCI, purtroppo si sbaglia. Nella sinistra ci sono persone per bene che portano i ceri per grazia ricevuta e altre, indegne di fare politica, che elogiano l’Arabia Saudita. Non è rimasto altro se non il teatro Goldoni e la lapide al San Marco, in macerie, a Livorno.