© Tessere il futuro / Sito realizzato da un gruppo di artisti per i cento anni dalla nascita del PCI / 1921-2021
Aurelio C, La via italiana al socialismo, 1972-73, acrilici su pannelli, 20metri x 3metri
Notte d’occupazione
di Graziella Tonon
Notte d’occupazione
innamorata
in un’auto scassata
a parlare, parlare
di rivoluzione
lui con l’eskimo usato
lei col montone
appena comprato da Max Mara.
Pensando
ai
giovani,
ho
scritto
alle
mie
nipotine
di
Bologna
che
vedo
impegnate
in
una
ricerca
‘di
vita’
non
solo
personale
ma
anche
collettiva,
chiedendo
loro
di
descrivermi
le
loro
esperienze
con
l’associazionismo…
Fernanda Fedi
L’associazionismo è una risorsa
Personalmente
non
ho
mai
fatto
parte
di
alcuna
associazione,
ma
mi
è
capitato
recentemente
di
appoggiare
ed
assistere
alla
nascita
di
una
di
esse.
Qualche
mese
fa,
infatti,
raccogliendo
informazioni
sull’Esame
di
Stato
per
l’abilitazione
come
Psicologo,
mi
sono
imbattuta
in
un
nutrito
gruppo
di
giovani
coetanei,
laureati
in
Psicologia,
riunitosi
in
un
gruppo
su
Facebook
con
l’obiettivo
di
discutere,
proporre
e
promuovere
possibili
riforme
dell’attuale
Esame
di
Stato
e
tirocinio
post-lauream,
percepito
dai
più,
e
dalla
sottoscritta,
come
un
ennesimo
ostacolo
e
rallentamento
a
un
percorso
di
formazione
già
di
per
sé
lungo
e
mai
rinnovato
negli
anni.
Da
un
semplice
gruppo
su
un
social
network,
la
condivisione
degli
ideali
e
il
desiderio
di
rinnovamento
ha
portato
alla
nascita
di
una
vera
e
propria
associazione,
che
conta
attualmente
più
di
10000
partecipanti
e
che,
dopo
un’incessante
attività
di
divulgazione
e
una
serie
di
manifestazioni
organizzate
in
tutte
le
piazze
d’Italia
è
riuscita
ad
aprire
un
dialogo
con
il
ministro
dell’Istruzione,
che,
in
risposta
alle
richieste
portate
avanti,
ha
deciso
di
proporre
un
disegno
di
legge
per
rendere
abilitanti
alcune
lauree,
tra
cui
quella
di
Psicologo
(con
l’obiettivo
appunto
di
abolire
il
contestato
Esame
di
Stato-
esistente
peraltro
solo
in Italia).
Ho
seguito
da
vicino
tutte
le
“battaglie”
portate
avanti
da
questo
gruppo
di
giovani
e
i
risultati,
che
con
mia
grande
sorpresa,
ogni
volta
sono
riusciti
a
portare
a
casa.
Non
nascondo
di
essere
rimasta
molto
colpita
dalla loro intraprendenza e perseveranza.
Ho
avuto
un
esempio
tangibile
di
come
l’associazionismo
sia
una
risorsa
importante
per
la
realizzazione
di
scopi
condivisi
con
il
fine
ultimo
di
un
rinnovamento sociale.
Carlotta Fedi
Nuova
Acropoli
è
un’associazione
che
si
occupa
di
filosofia,
volontariato
e cultura. Obiettivi:
1.Promuovere
il
rispetto
della
dignità
umana
senza
distinzione
di
credenze,
culture
e
condizioni
sociali,
riunendo
gli
uomini
e
le
donne
attorno ad un ideale di fraternità e solidarietà.
2.Promuovere
la concordia tra
tutti
gli
esseri
umani
senza
distinzione
attraverso lo studio comparato dei valori umani e l’azione solidale.
3.Sviluppare
le capacità
dell’individuo affinché
possa
integrarsi
nella
Natura
ed
ampliare
le
qualità
della
sua
personalità
attraverso
la
sua
azione.
Mi
sono
affacciata
a
questa
associazione
perché
proponevano
un
corso
di
filosofia
attiva
e
in
quel
periodo
ero
alla
ricerca
di
risposte
a
dubbi
esistenziali
ed
ero
curiosa
di
approfondire
la
filosofia,
una
materia
che
non
studiavo
a
scuola.
Sono
stata
membro
dell’associazione
per
un
paio
d’anni
e
insieme
abbiamo
fatto
tante
cose:
ho
partecipato
a
un
corso
di
filosofia
attiva,
a
un
campo
estivo
legato
alla
protezione
civile,
incontri
culturali rivolti al pubblico e a un progetto di riqualificazione di un parco.
Oltre
a
ciò,
ho
vissuto
a
pieno
la
vita
associativa
partecipando
a
cene,
riunioni, raduni e attività di promozione dell’associazione.
Durante
il
periodo
passato
in
associazione
mi
sono
trovata
molto
bene
e
la
cosa
che
mi
ha
colpito
di
più
è
stato
il
forte
spirito
di
gruppo
e
la
chiara
direzione
di
dove,
come
gruppo,
stessimo
andando.
Mi
sono
trovata
molto
bene
fino
a
quando,
mese
dopo
mese,
ho
iniziato
a
vedere
in
maniera
più
distaccata
il
gruppo
e
tutti
gli
insegnamenti.
Da
quel
distacco
ho
capito
che
avevo
voglia
di
approfondire
altre
cose
e
scoprire nuovi punti di vista.
Nuova
Acropoli
mi
ha
insegnato
tantissime
cose,
mi
ha
ispirato
e
aiutato
dandomi
diversi
punti
di
vista
sulla
vita,
dall’occidente
all’oriente
e
creando
in
me
un
legame
stretto
tra
pensiero
e
azione.
Applicare
e
non teorizzare.
Parrocchia
,
che
frequento
da
quando
ho
12
anni.
Inizialmente
sono
stata
invitata
da
una
amica
a
partecipare
al
gruppo
dei
giovani,
un
pomeriggio
a
settimana
dove
prima
si
gioca
a
pallone
e
poi
si
fa
un’oretta
d’incontro.
Quando
ti
affacci
ad
una
realtà
così
strutturata
mano
a
mano
che
cresci
ogni
anno
ci
sono
nuove
proposte
di
attività
a
cui
partecipare,
nel
mio
caso
prima
«Estate
ragazzi»
come
animatrice
poi
il
catechismo.
La
cosa
che
trovo
più
bella
della
parrocchia
è
il
gruppo.
Lì
ho
conosciuto
tutti
i
miei
più
cari
amici
e
ho
fatto
tantissime
esperienze.
La
contraddizione
più
grande
invece
è
che
la
maggior
parte
dei
giovani,
almeno
nella
mia
parrocchia,
ci
va
per
fare
attività
insieme
e divertirsi, non per interesse legato alla fede.
Voolo
è
il
progetto
che
ho
creato
per
rendere
più
accessibile
il
mondo
del
volontariato
ai
giovani
attraverso
una
piattaforma
digitale
che
raccoglie varie opportunità di volontariato presenti sul territorio.
Attualmente
stiamo
conoscendo
le
associazioni
del
territorio,
sia
legate
al
volontariato
sia
a
carattere
culturale
con
l’obiettivo
di
diffonderle
tra
i
giovani.
In
questo
periodo
stiamo
intervistando
chi
sta
dietro
ad
ognuna
di
esse.
Quello
che
colpisce
è
il
loro
credere
profondamente
nel
loro
progetto
e
il
bisogno
,sempre
crescente,
di
avere
nuovi
giovani
che
possano aiutarli.
Francesca Fedi
Ecco alcuni brevi versi scritti da
un amico poeta e critico d’arte,
scomparso l’anno scorso.
Sappiamo che gli avrebbe fatto
piacere partecipare a questa
iniziativa.
È
il
21
agosto
1964
quando
l’agenzia
di
stampa
Ansa
diffonde
la
notizia:
«Con
profondo
dolore
la
segreteria
del
Pci
annuncia
la
morte
del
compagno
Palmiro
Togliatti
(1893-1964),
avvenuta
oggi
a
Jalta
alle
ore
13.20».
L’Unità,
organo
ufficiale
del
partito,
esce
in
edizione
straordinaria
con
la
prima
pagina
listata
a
lutto
e
la
scritta
“Togliatti
è
morto”.
Le
esequie
si
tengono
a
Roma
il
25
agosto
del
1964,
alla
presenza
di
una
folla immensa.
Sei
anni
dopo,
Renato
Guttuso
inizia
a
lavorare
a
u
n
’
o
p
e
r
a
straordinaria
che
verrà
intitolata
appunto
“I
funerali
di
Togliatti”:
quattro
metri
e
quaranta
la
lunghezza
per
tre
e
quaranta
l’
altezza,
circa
quindici
metri
quadrati
di
pittura
acrilica
su
carta,
s
u
c
c
e
s
s
i
v
a
m
e
n
t
e
applicata
a
quattro
pannelli
di
legno
compensato
uniti
tra loro.
Tra
bozzetti
e
studi,
l’opera
viene
su
a
poco
a
poco
nella
tranquillità
del
suo
studio
di
Velate,
lontano
dalle
distrazioni
dei
salotti
romani,
con
quasi
centocinquanta
figure
tra
le
quali
almeno
trentatré
ritratti
identificabili
e
un
cospicuo
numero
di
altre
figure,
bandiere
e
quant’altro.
Viene
terminata
a
metà
del
1972,
in
tempo
per
partire
alla
volta
di
Mosca
con
altre
novantatré
opere,
dagli
esordi
del
1931
al
presente,
scelte
da
Guttuso
per
essere
allestite
in
dieci
sale
dell’Accademia
di
Belle
Arti
di
Mosca
e
in
parte
all’Ermitage:
di
fatto
la
sua
mostra
più
completa
all’estero
fino
ad
allora,
che
viaggerà
poi
per
molti
mesi
in
altre
capitali
dell’Est.
L’occasione
è
il
conferimento
dell’ambìto
Premio
Lenin,
la
più
alta
onorificenza
internazionale
dell’URSS
“per
il
consolidamento
della
pace
fra
i popoli”, già assegnata a Neruda, Alberti, Picasso ecc.
Un
anno
dopo,
ai
primi
di
settembre
del
1973,
si
inaugura
a
Milano
la
grande
Festa
Nazionale
dell’Unità
al
Parco
Sempione,
la
prima
da
quando
Enrico
Berlinguer
è
segretario
nazionale.
Gianni
Cervetti,
segretario
della
Federazione
milanese,
chiama
a
una
straordinaria
mobilitazione
dei
militanti
perché
il
lavoro
da
fare
è
immenso.
C’è
da
costruire
una
sorta
di
“città
nella
città”,
teatri,
palchi,
ristoranti,
ristori
ecc.
rispettando
il
verde
del
parco,
tempi
strettissimi
e
l’ambizione
di
rinnovare
il
senso
e
il
“tono”
fino
ad
allora
un
po’
strapaesano
e
festaiolo
di
iniziative
di
massa
come
quella.
Si
mette
mano
all’organizzazione
di
una
vera
e
propria
TV
della
Festa,
si
costruiscono
innovative
tensostrutture,
Giò
Pomodoro
progetta
il
palco
principale
di
Piazza
del
Cannone,
si
pensa
anche
all’arte
e
alla
pittura,
e
Mario
De
Micheli,
critico
d’arte
dell’Unità,
ha
un’idea,
chiedere
a
Guttuso
(che
nel
frattempo
ha
donato
al
PCI
il
grande
quadro
dei
“Funerali”) di ospitarlo al Festival.
È detto e subito fatto.
Partono
telefonate
e
fax
(erano
le
mail
dell’epoca)
e
la
cosa
è
decisa.
Si
costruirà
uno
stand
apposito,
e
a
fine
agosto,
a
pochi
giorni
dall’inizio,
il
quadro, smontato e imballato, arriverà in aereo a Linate da Mosca.
E
qui
nel
racconto
entro
io,
ventottenne
critico
d’arte
che
Mario
aveva
chiamato
a
Milano
tre
anni
prima
per
essere
suo
vice
all’Unità
milanese
e
per collaborare alle sue molte iniziative espositive e culturali.
La
mattina
prevista
dell’arrivo,
infatti,
in
Federazione
ci
si
accorge
che
per
qualche
motivo
nessuno
ha
pensato
al
trasporto
dell’opera
da
Linate
al
Parco
Sempione
(il
Partito
può
essere
anche
questo).
Tempo
di
ferie,
trasportatori
specializzati
d’arte
chiusi
o
introvabili,
si
decide
allora
di
“fare
in
casa”
mandando
uno
dei
camion
attivi
per
il
cantiere
del
Festival.
Solo
sarà
bene
che
il
trasporto,
data
la
particolarità
dell’oggetto
trasportato,
venga
supervisionato
da
un
militante
“esperto”.
Ecco
dunque
che
arriva
la
telefonata
al
giovane
compagno
critico.
Raccomandazioni
pressanti,
richiami
alla
massima
attenzione
e
responsabilità,
e
poi…
la
botta: “Tieni presente che è assicurato per cinquecento milioni!”
Insomma,
una
cifra
–
quel
mezzo
miliardo
di
lire
–
decisamente
astronomica
per
allora,
e
che
mi
entrò
nella
coscienza
come
un
brivido
gelato alla schiena.
Mi
spiegano
dove
passare
a
prendere
la
documentazione
doganale
per
il
ritiro,
dove
incontrare
camionista
e
camion
già
sul
posto
a
Linate,
quando
partire (subito).
E dunque vado subito, non ben sicuro se esserne fiero o preoccupato.
A
Linate,
mi
accorgo
che
era
giusta
la
seconda.
Il
veicolo
che
mi
trovo
di
fronte
infatti
è
un
camioncino
scoperto,
con
due
sponde
a
liste
di
legno
un
po’
sgangherate,
un
pianale
ingombro
di
barattoli
e
cartoni
e
una
ribaltina
chiusa
con
fil
di
ferro
essendo
rotti
entrambi
gli
appositi
ganci
di
chiusura. I famosi potenti mezzi dunque. Solo che c’è poco da sorridere!
Sì,
perché
l’altra
sorpresa,
stavolta
preparata
dal
mittente,
cioè
dai
compagni
sovietici,
consiste
nello
scoprire
che
le
quattro
casse
in
cui
è
smontata
la
preziosa
ma
fragile
opera
(si
tratta
in
definitiva
di
carta
dipinta
applicata
a
pannelli
di
legno)
non
sono
contenitori
interi,
ben
chiusi
e
stagni.
Sono
invece
strutture
a
telaio,
con
listelli
robusti
e
distanziati
e
spessori
interni
di
polistirolo,
buone
certo
a
difendere
egregiamente
il
contenuto
da
urti
e
scossoni,
ma
ben
poco
funzionali
contro agenti nocivi esterni quali, per esempio, polvere o pioggia.
Dalle
larghe
aperture
di
tali
intelaiature
costellate
di
etichette
scritte
in
cirillico,
difesa
solo
da
uno
strato
di
spessa
carta
velina
(il
pluriboll
ancora
non
esisteva
mi
pare,
o
non
era
ancora
arrivato
a
Mosca)
si
intravede
distintamente
la
superfice
dipinta,
e
fiammeggiano
gli
strepitosi
colori
di
Guttuso,
l’energia
robusta
delle
sue
immagini
nel
rosso
di
una
bandiera,
nel profilo di un pugno chiuso o di un viso a grandezza naturale.
E
il
cielo,
in
quella
tarda
mattinata
di
fine
agosto,
è
piuttosto
temporalesco, mentre il mio camion è, e resta, desolatamente scoperto.
Il
senso
della
responsabilità
(un
capolavoro
insostituibile!
mezzo
miliardo!),
fino
ad
allora
sospeso
come
un
sottofondo
teorico
in
un
angolo
della
mente,
viene
clamorosamente,
angosciosamente
a
galla
nell’attimo
in
cui
mi
rendo
conto,
assieme
al
guidatore
del
camion,
che
per
coprire
l’opera
non
disponiamo
che
di
un
paio
di
improbabili
teloncini
(poco
più
di
lenzuoli,
evidentemente
usati
durante
i
tinteggiamenti
degli
stand)
e
di
un po’ di cordami e nastri di varia natura.
Ognuno
combatte
la
propria
battaglia
con
le
armi
che
ha!
Ci
mettiamo
dunque
a
ripulire
il
pianale
e
a
fissare
il
più
saldamente
possibile
il
carico
dei
contenitori
alle
sponde,
coprendolo
il
meglio
che
si
può.
Facciamo
qualche
prova
di
partenza
e
frenata
(non
dimenticherò
mai
i
sinistri,
inquietanti
cigolii
prodotti
dallo
sfregamento
delle
casse
tra
di
loro),
e
ci
avviamo
in
lenta
colonna
su
viale
Forlanini,
camion
davanti
e
io
dietro,
tenendo
gli
occhi
al
cielo
e
le
dita
freneticamente
incrociate.
Alea
iacta
est!
È
stata
una
delle
ore
più
angosciose
della
mia
vita,
che
oggi,
a
quasi
cinquant’anni
di
distanza,
ripenso
ancora
con
i
sudori
freddi.
Ai
semafori
rossi
il
tempo
non
sembrava
passare
mai,
gli
altri
veicoli
ci
sorpassavano
strombazzando
e
imprecando,
ogni
sussulto
delle
ruote
sui
binari
del
tram
mi
entrava
nel
cuore
come
una
coltellata.
Per
non
dire
delle
gocce
di
pioggia
che
di
tanto
in
tanto
venivano
minacciosamente
a
costellare
il
parabrezza...
L’arrivo
su
via
Legnano
e
l’ingresso
sotto
lo
striscione
del
Festival
fu
la
conquista
della
terra
promessa,
il
definitivo
sollievo
che
ripagò
le
mie
tribolazioni.
All’ultimo
momento
riuscimmo
ad
esporre
anche
lo
spettacolare
dipinto
«La
via
italiana
al
socialismo»,
che
Aurelio
C.
(Aurelio
Ceccarelli)
con
i
suoi
collaboratori
Leonardo
Giulietti
e
Giorgio
Cardarelli
aveva
appena
terminato
per
il
Circolo
Valentia
di
Valenza
Po,
oggi
conservato
presso
la
Fondazione Luigi Longo di Alessandria. Venti metri di lunghezza per tre di
altezza,
un’immagine
immensa
e
imponente
di
formidabile
impatto
narrativo
e
scenografico,
al
cui
cospetto
non
pochi
nella
fiumana
di
visitatori che vi scorreva davanti si levavano il cappello.
Ma
stavolta
quell’opera,
sia
all’andata
che
al
ritorno,
fu
trasportata
direttamente dai compagni di Valenza.
continua dalla pagina
precedente…
continua a
leggere…
È
noto
a
tutti
ciò
che
avvenne
nel
1948,
quando
Palmiro
Togliatti,
sotto
lo
pseudonimo
di
Roderigo
di
Castiglia,
recensendo
sul
numero
di
novembre
della
rivista
Rinascita
una
mostra
tenuta
a
Bologna,
scrisse
parole che segnarono profondamente l'arte italiana di quel tempo.
L'esposizione,
aperta
dal
17
ottobre
al
5
novembre
al
Palazzo
del
Re
Enzo,
era
intitolata
Prima
mostra
nazionale
d'arte
contemporanea
ed
era
stata
organizzata
dall'Alleanza
per
la
Difesa
della
Cultura,
creata
in
quell'anno
nell'ambito
del
Fronte
Democratico
Popolare,
contando,
nel
Comitato
d'onore,
intellettuali
come
Cesare
Gnudi,
Francesco
Arcangeli
e Giuseppe Raimondi.
Ecco
quanto
scriveva
Togliatti:
«È
una
raccolta
di
cose
mostruose;
riproduzioni
di
cosiddetti
quadri,
disegni
e
sculture
che
a
cura
dell'
Alleanza
della
Cultura
di
Bologna
sono
stati
esposti
in
quella
città
in
una
“Prima
(
sic
)
mostra
nazionale
d'arte
(
resic
)
contemporanea”.
Come
si
fa
a
chiamare
“arte”,
e
persino
“arte
nuova”
questa
roba,
e
come
mai
hanno
potuto
trovarsi
a
Bologna,
che
pure
è
città
di
così
spiccate
tradizioni
culturali
e
artistiche,
tante
brave
persone
disposte
a
avallare
con
la
loro
autorità,
davanti
al
pubblico,
questa
esposizione
di
orrori
e
di
scemenze
come
un
avvenimento
artistico?
Diciamo
la
verità:
queste
brave
persone
la
pensano
come
noi
tutti;
nessuno
di
loro
ritiene
o
sente
che
sia
opera
d'arte
uno
qualsiasi
degli
scarabocchi
qui
riprodotti,
ma
forse
credono
che
per
apparire
“uomini
di
cultura”
sia
necessario,
davanti
a
queste
cose,
darsi
l'aria
di
superintenditore
e
superuomo
e
biascicare
frasi
senza
senso.
Suvvia!
Abbiate
coraggio!
Fate
come
il
ragazzino
della
novella
di
Andersen:
dite
ch'è
nudo
il
re;
e
che
uno
scarabocchio
è
uno
scarabocchio.
Ci
guadagnerete
voi
perché
sarete
stati
sinceri,
e
gli
artisti,
o
pretesi
tali,
certo
s'arrabbieranno
sulle
prime,
ma
poi
farà
bene
anche
a
loro».
(Roderigo
di
Castiglia,
Segnalazioni
,
in
Rinascita
,
anno
V,
n.
11,
novembre 1948, p. 424).
Sono
parole
che
ancor
oggi
suscitano
sconcerto
e
stupore,
soprattutto
se
si
considera
chi
erano
gli
artisti
espositori,
che
volevano
appunto
rappresentare
uno
spaccato
significativo
della
situazione
dell'arte
contemporanea:
accanto
ad
alcuni
dei
componenti
del
Fronte
Nuovo
delle
Arti
come
Renato
Birolli,
Antonio
Corpora,
Renato
Guttuso,
Ennio
Morlotti,
Armando
Pizzinato,
Giuseppe
Santomaso,
Emilio
Vedova,
erano
presenti
altri
artisti
quali
Afro,
Corrado
Cagli,
Bruno
Cassinari,
Alfredo
Chighine,
Franco
Francese,
Pompilio
Mandelli,
Piero
Martina,
Gino
Meloni,
Giovanni
Omiccioli,
Cesare
Peverelli,
Ampelio
Tettamanti,
Ernesto
Treccani,
Mirko,
Vittorio
Tavernari:
insomma,
una
consistente
parte
di
coloro
che
sarebbero
diventati
i
più
importanti
e
rappresentativi
protagonisti
della
scena
artistica
italiana
del
secondo
novecento. ( … )
1871-1921 / 1991-2021
di Attilio Pizzigoni
«Le azioni creano sogni e non viceversa»
dal “Che fare” di Nikolaj Černyševskij
21
gennaio
2021
-
Giorno
di
celebrazioni.
Cerimonia
e
memoria
di
un
evento
passato,
da
ricordare.
Ripresa
o
ripetizione.
Riferimento
nel
quale
identificarsi
o
traccia
di
un
futuro
da
compiere.
Nostalgia,
revisione,
speranza.
Eterno
ritorno
o
completamento
di
un’azione
interrotta.
Modelli
da
seguire,
disfatte
da
scongiurare.
Mito
o
fantasma
della
Comune. Mito o fantasma della Rivoluzione d’Ottobre.
Forse
è
una
strana
legge
dei
numeri
quella
che
cade
in
questo
anno
e
che
non
solo
ci
riporta
al
centesimo
anniversario
dalla
nascita
del
Partito
Comunista
in
Italia,
ma
anche
a
quella
che
trent’anni
or
sono,
nel
20°
Congresso
del
1991,
portò
al
suo
scioglimento.
Ho
sempre
pensato
che
fosse
un
grande
errore
aver
chiuso
quell’esperienza
politica
proprio
nel
momento
in
cui
il
venir
meno
delle
cortine
ideologiche
e
geografiche
avrebbe
liberato
la
battaglia
politica
dai
fantasmi
delle
tragedie
staliniane
che
avevano
macchiato
così
profondamente,
e
forse
distrutto,
la
memoria di un’utopia realizzata.
Ogni
data,
ogni
anno,
ogni
volta,
è
l’identica
ricerca
di
una
guida
per
agire,
per
tornare
a
discutere
delle
inesorabili
logiche,
degli
inevitati
errori, delle incrollabili speranze.
Il
tema
rimane
quello
delle
contraddizioni
tra
il
1789
e
il
1793,
tra
il
14
luglio
e
il
18
brumaio,
dalla
festa
comunitaria
al
giacobinismo
fino
al
centralismo statale che inevitabilmente riporta allo sciovinismo.
Ma
nei
corsi
e
ricorsi
di
queste
date,
entusiasmanti
e
terribili,
quella
che
più
mi
sobbalza
nel
cuore
é
quella
dei
72
giorni
parigini
che
vanno
dal
18
marzo
al
28
maggio
del
1871.
È
l’esperienza
della
Comune
Parigina,
con
i
suoi
Manifesti,
quello
delle
Donne
Internazionali,
e
quello
altrettanto
forte
degli
Artisti,
è
quella
la
storia
che
ancora
oggi
sa
travolgerci
come
data
che
ci
indirizza
a
una
visione
di
futuro.
La
Comune,
con
tutta
la
sua
evidenza
di
utopia
concreta,
che
ci
travolge
nella
visione
di
futuri
possibili,
che
attualizza
e
dà
un
senso
e
una
visione
sempre
attuale
alla
lunga
e
ininterrotta
vicenda
di
lotte
per
la
dignità
dell’uomo
e
per
la
dimensione
democratica
e
comunitaria
del
lavoro.
Celebrazione,
non
come
commemorazione
di
un fatto ma come liberazione di un possibile.
È
lo
spazio
della
Comune
che
leggiamo
nelle
poesie
di
Rimbaud,
nella
canzone
Le
temps
des
cerises,
sono
occhi
contemporanei
quelli
con
cui
guardiamo
le
figure
di
Louise
Michel
e
di
Elisabeth
Dmitrieff.
Sono
quei
72
giorni
di
una
primavera
di
150
anni
or
sono
che
ancora
ci
coinvolgono
perché
da
lì
sono nati gli ideali della modernità.
Oggi
non
guardiamo
più
alla
Comune
come
a
un
mito
crollato,
come
ad
un
errore
di
utopia
da
superare
nella
prospettiva
di
realizzare
un
comunismo
dal
basso.
Questi
furono
i
sentimenti
che
animarono
la
Rivoluzione
d’Ottobre
e
certamente
anche
lo
stesso
spirito
di
Livorno;
il
nostro
“’21”
se
avrà
da
esserci,
non
potrà
essere
la
ricerca
di
un
antidoto
al
fallimento
del
1871,
non
può
essere
quello
che
aveva
cantato
Lenin
al
settantatreesimo
giorno
dopo
la
presa
del
Palazzo
d’Inverno
ballando
felice
nella
neve
perché
la
loro
rivoluzione
era
durata
un
giorno
di
più
di
quella parigina.
Se
gli
ideali
della
Comune
di
Parigi
sono
sempre
più
attuali,
non
è
per
rivendicare
rivincite
o
primati,
ma
perché
vediamo
sempre
più
fermi
e
concreti,
davanti
a
noi,
quei
necessari
percorsi
di
emancipazione
in
cui
il
lavoro
possa
ritrovare
quella
dignità
capace
di
dare
piacere
e
felicità,
all’interno di una società capace di ineguaglianze sociali.
È
nella
prospettiva
di
un
lavoro
liberato
da
ogni
reificazione
del
profitto
che
queste
celebrazioni
trovano
il
loro
significato,
nel
senso
di
quella
frase
con
cui
si
concludeva
il
Manifesto
degli
Artisti
della
Comune,
che
ancora
risuona
in
tutta
la
sua
attualità
e
lucidità
di
un
progetto
sociale:
“
Lavoreremo
insieme
per
la
nostra
rigenerazione,
il
benessere
e
la
felicità
comune, gli splendori futuri e la Repubblica Universale. ”
Ecco,
è
sull’eco
di
quelle
parole
che
vorremmo
leggere
la
solennità
di
questa ricorrenza.
NON VOLEVO NON VOLEVO NON VOLEVO
CHE GLI CAMBIASSERO NOME
di Vivian Lamarque
UNO. Sono passati cento o centomila anni?
DUE.
Non
volevo
non
volevo
non
volevo
che
gli
cambiassero
nome.
Scrissi
persino
a
Roma
supplicandoli
e
loro
gentilmente
mi
risposero.
Devo
cercarla quella lettera.
TRE.
Non
volevo
non
volevo
che
il
computer
si
chiamasse
pc
e
soprattutto
che
si
pronunciasse
picì,
non
mi
rassegnavo.
Ancora
oggi
lo
chiamo
computer.
QUATTRO.
Quando
ho
nostalgia
(non
degli
errori,
di
tutto
il
resto)
mi
guardo
certi
quadri,
per
esempio
quelli
di
Gioxe
De
Micheli
(lì
non
ci
sono
gli
errori,
c’è
tutto
il
resto)
e
leggo
le
vite
di
alcuni,
per
esempio
quella
di
Gandhi (lo so che qui non c'entra, ma è il mio consolatore prediletto).
CINQUE.
Ora
sto
leggendo
l’Epistolario
della
famiglia
Rosselli,
madre
e
tre
figli
maschi.
Si
pensa
sempre
a
due,
Carlo
e
Nello,
trucidati
come
si
sa,
a
38
e
37
anni,
vicino
a
Parigi,
dai
sicari
Cagoulard
che
agivano
per
ordine
di
Mussolini.
Però,
povera
madre,
ventenne
aveva
perso
anche
il
primogenito Aldo, sul fronte carnico, durante la prima guerra mondiale.
Scrisse
Carlo
molti
anni
dopo,
“
hai
creato
tre
vite
che
non
saranno
numeri
vani,
non
lasceranno
l’ambiente
così
come
lo
trovarono,
bruceranno
forse
tutt’e tre, ma per aver cercato di avvicinarsi troppo alla luce”
.
Un aspetto meno noto
di una bella iniziativa
L’arte contro la barbarie
Roma 1944
di Mauro Corradini
Mi
viene
in
mente
quella
volta
che
i
nostri
"padri"
fecero
un
gesto
d’arte
davvero
splendido
e,
insieme,
quantomeno
insolito.
Settantacinque
anni
fa,
in
piena
guerra
e
in
piena
occupazione,
in
anticipo
d’un
anno
rispetto
all’Italia
settentrionale,
Roma
fu
liberata
da
nazismo
e
fascismo.
Come
è
noto,
proprio
a
Roma
il
23
agosto
1944,
con
il
sostegno
del
quotidiano
L'Unità,
fu
organizzata
da
un
gruppo
di
artisti
una
mostra,
giustamente
titolata
"L'arte
contro
la
barbarie".
Conosciamo
tutti
le
"Fantasie"
di
Mafai
o
il
"Gott
mit
Uns"
di
Guttuso,
opere
che
vi
si
videro
in
pubblico
per
la
prima
volta,
insieme
a
molte
altre.
Forse
meno
noto,
però,
è
il
percorso
iniziale
(così
è
stato
descritto),
di
cui
non
è
rimasta
traccia.
Quale?
Sei
opere
"rifatte"
per
l’occasione,
sei
copie
(chi
poteva
chiedere
un
prestito
allora?
e
a
chi
chiederlo?),
che
tracciavano,
nella
mente
dei
curatori,
un
percorso
esemplare
nell'arte
europea
di
impegno
sociale
e
politico.
Difatti,
Mario
Mafai
rifece
"La
libertà
guida
il
popolo",
di
Eugène
Delacroix;
Renato
Guttuso
rifece,
di
Goya,
«Le
fucilazioni
del
3
di
maggio»;
Giulio
Turcato,
«La
difesa di Pietrogrado» di Deineka;
Antonio
Di
Mata
copiò
«O
Roma
o
morte»
di
Gioacchino
Toma.
infine
Ugo
Rambaldi
rifece
«A
Marat»
di
Jacques-Louis
David
e
Mirko
l’altorilievo
di
Francois
Rude
«La
Marsigliese»,
collocato
sull’Arc
de
Triomphe di Parigi.
Non
è
rimasto
nulla
di
quelle
copie
(o
meglio:
rifacimenti);
però
ricordarle
potrebbe
essere
un'indicazione,
su
cui
molti
potrebbero
oggi
intervenire,
aprendo
commenti,
riflessioni,
meditazioni
(non
necessariamente
solo
di
storia e critica d'arte).
Non
si
tratta
di
commentare,
ma
riflettere
su
un
percorso,
elaborato
da
un
gruppo
di
artisti
in
quella
calda
estate
romana
del
1944.
E
di
ricordare,
anche,
la
natura
e
il
senso
dell’eccezionale
"manualità"
che
quei
nostri
artisti
seppero
esprimere
per
l’occasione,
così
alta
e
insieme
considerata
così
"normale"
al
punto
di
non
conservare
tracce
né riproduzioni di quei cartoni, bozzetti, disegni e dipinti...
Magari
-
e
sarebbe
bello
-
scopriremo
che
qualcuno
ha
ancora
in
soffitta qualche documento o qualche foto di quella mostra!
CHE NOSTALGIA!
di Francesco D’Adamo
Delle
serate
passate
in
Sezione
o
alla
Casa
del
Popolo
per
il
dibattito
o
per
provare
a
rimorchiare
una
compagna;
delle
albe
gelate
d’inverno
in
via
Rubattino,
con
il
megafono
davanti
all’Innocenti,
cambio
turno,
solo
un
incerto
filo
di
luce
all’orizzonte,
lo
stupore
della
sirena
e
gli
operai
che
uscivano
assonnati
in
bilico
sulla
bici
nel
nebiùn
;
di
quando
eravamo
noi
;
di
quando
cantavamo;
di
quando
passavamo
le
notti
d’estate
a
discutere
sul
marciapiede
fino
a
quando non ci arrivava una secchiata d’acqua dal secondo piano.
Che
nostalgia
dei
treni
speciali
che
andavano
a
Roma,
dieci
ore
di
viaggio
e
sigarette
Gitanes
-
e
una
volta
fino
a
Reggio
Calabria
con
le
bombe
sui
binari
-
e
senza
quei
treni
oggi
non
avremmo
nemmeno
quella democrazia malata che ci resta.
Di quando i fascisti li prendevamo a calci in culo e basta.
Che
nostalgia
di
quando
eravamo
felici
perché
avevamo
delle
cose
che
ci
riempivano
la
vita,
cose
che
non
si
potevano
toccare,
astratte
-
i
valori
della
Resistenza,
della
giustizia,
della
libertà,
l’orgoglio
del
lavoro
che
era
dignità
e
non
l’orrore
che
è
oggi,
avevamo
gli
ideali
-
pensa un po’.
Mica ci mangiate con questa roba, compagni.
Sì
che
ci
mangiavamo,
mi
ci
sono
riempito
la
pancia
per
anni,
avevano
un
sapore
che
ricordo
ancora
bene
ma
che
oggi
non
trovo
più.
Che
nostalgia
dei
Comunisti
di
una
volta
e
che
bisogno
ce
ne
sarebbe
ancora
oggi
perché
ancora
troppi
sono
gli
spettri
che
si
aggirano per l’Europa:
gli
spettri
accampati
nella
ex
fabbrica
di
Tito,
in
Bosnia,
in
infradito
nella neve di gennaio;
gli
spettri
che
aleggiano
sulle
acque
del
Mediterraneo,
che
salgono
dal
profondo
come
la
nebbia
-
duemilacentotrentatre
solo
l’anno
scorso;
gli
spettri
che
nelle
nostre
campagne
non
alzano
la
schiena
dalle
piante di pomodoro e non cantano
blues;
gli
spettri
che
si
aggirano
nelle
fabbriche
chiuse,
abbandonate,
sventrate, svendute;
gli
spettri
che
si
aggirano
con
uno
zaino
sulla
schiena
nelle
nostre
città;
lo
spettro
onnipresente
del
ghigno
cocainomane
degli
imprenditori
della
new economy
, che Dio li maledica - se c’è.
Che
nostalgia
dei
concerti
di
Ivan
Della
Mea,
rigorosamente
nei
Circoli
Arci.
Quando
cantava
Della
Mea
ci
toccavamo
tutti
perché
sì,
insomma, portava un po’ sfiga, sempre così cupo, pessimista.
Lui cantava:
...viva la vita comprata a rate...
….viva il sistema che rende uguali e fa felice
chi ha il potere e chi non ce l’ha…
Esagerato.
Ma
se
oggi
mi
guardo
attorno
tra
le
vetrine
del
centro
-
i
ragazzi
merce
abbaglio
compra
compra,
tutti
che
si
fotografano
e
non
capisco
perchè
e
non
lo
so
se
sono
felici,
hanno
giusto
le
braghe
alla
moda
e
nessun
futuro
-
allora
mi
viene
il
sospetto
che
avesse
ragione lui, povero Della Mea.
Che nostalgia, compagni.
Ci vuole orgoglio
di Claudio Marciano
Cento
anni
fa
nasceva
il
Partito
Comunista
d'Italia.
La
sua
storia
ha
segnato
quella
dell'intero
Paese.
Il
comunismo
italiano
è
legato
ai
valori
della
democrazia,
dell'antifascismo,
della
redistribuzione
della
ricchezza
e
della
terra,
dei
diritti
sociali
universali,
dell'Europa
unita,
della cultura di massa.
Come
spiega
bene
questa
bellissima
opera
di
Gioxe
De
Micheli
che
ho
visto
in
questo
sito,
le
ragioni
per
cui
il
PCI
è
nato
sono
ancora
tutte
in
piedi.
Ancora
oggi
il
lavoro
è
mercificato,
la
ricchezza
redistribuita in maniera ineguale, la mobilità sociale è congelata.
Eppure
oggi
non
c'è
più
un
soggetto
che
per
programma,
valori
e
personalità,
possa
trasformare
quei
bisogni
in
offerta
politica.
Le
sinistre
italiane
sono
in
crisi
da
trent'anni,
incapaci
di
innovare
e
di
controbilanciare
le
spinte
selettive
del
capitalismo
con
ricette
apertamente alternative.
Io
sono
cresciuto
in
anni
in
cui
la
parola
comunista
non
si
pronunciava
più
con
orgoglio,
ma
con
vergogna.
Gli
anni
del
revisionismo
storico,
dello
squallido
parallelismo
col
fascismo
(opposti
estremismi),
dei
libri
neri
del
comunismo.
Bisognerebbe
ritornare
ad
avere
orgoglio
di
quella
meravigliosa
parola,
a
non
avere
bisogno
di
precisare
altro
quando
la
si
utilizza
per descrivere il proprio credo politico.
Claudio Marciano
Renato Guttuso,
I funerali di Togliatti,
440x340cm,
acrilici su carta
applicata a pannelli di legno,
1971-72
Emilio Vedova, pubblicato
in Rinascita,
anno V, n. 12, dicembre
1948, p. 470
Una bandiera della
Comune di
Parigi donata alla
Direzione
nazionale del PCI
La locandina della mostra
«Arte contro la barbarie»
organizzata da un gruppo di
artisti romani, sostenuti dal
PCI e da l’Unità. presso la
«Galleria di Roma» nella
capitale appena liberata,
dal 23 agosto fino al 5
settembre 1944.
Per approfondire:
Chiara Perin, «La vera
mostra del fascismo. Arte
contro la barbarie a Roma
nel 1944».
Qui il PDF disponibile in
rete:
Graziella Tonon.
Architetto, urbanista,
docente e poetessa,
vive a Milano.
Miklos N.Varga.
Scrittore, saggista e poeta,
era nato a Milano nel 1932,
dove è scomparso nel 2019.
L’arte alla Festa dell’Unità
Quella mattina che portai
mezzo miliardo
su un camion scoperto
di Giorgio Seveso
Giorgio Seveso.
Sanremo, 1944.
Critico d’arte, giornalista e
curatore, vive a Milano dal 1969
dove è stato critico dell’Unità
per circa trent’anni.
sCARABOCCHI
di Francesca Pensa
Francesca Pensa.
Storica dell’arte,
saggista e insegnante,
vive e opera a Milano.
Attilio Pizzigoni.
Bergamo, 1947
Architetto, docente
e saggista,
vive a Bergamo.
Vivian Lamarque.
Scrittrice, poetessa e
traduttrice, è nata a
Tesero (TN) nel 1946.
Vive e opera a Milano.
Mauro Corradini.
Critico d’arte, giornalista e
docente, è nato a Suzzara
nel 1939. Vive e lavora a
Brescia.
Francesco D’Adamo.
Scrittore,
è nato a
Portogruaro (VE)
nel 1949.
Vive e opera
a Milano.
Claudio Marciano.
Nato a Formia nel 1983
è ricercatore
all’Università di Torino,
dove vive e opera.
I nipotini irrequieti
e senza memoria
di nonno PCI
di Ettore Vittorini
Il
giorno
successivo
alle
ultime
elezioni
regionali
in
Toscana,
il
vincitore
Eugenio
Giani,
autorevole
membro
del
PD,
corse
subito
a
Livorno,
la
culla
del
Partito
comunista
italiano.
Non
si
fermò
in
città,
ma
si
recò
a
Montenero,
una
splendida
località
in
collina
che
guarda
il
mare,
nota
per
il
suo
antico
santuario
dedicato
alla
Madonna
e
per
Carlo
Goldoni
che
vi
ambientò
nel
‘700
la
sua
commedia
“Le
smanie
della
villeggiatura”.
Davanti
al
santuario
attendevano
Giani
il
vescovo
e
un
folto
gruppo
di
fotografi
e
giornalisti.
Il
neopresidente
si
era
recato
in
quel
luogo
di
pellegrinaggio
per
ringraziare
la
Santa
donna
“per
vittoria
ricevuta”
e
aveva
posto
un
cero
davanti
alla
sua
immagine
sotto
i
lampi
dei
fotografi.
Sottolineo
che
ognuno
è
libero
di
professare
le
proprie
idee
e
la
propria
fede
ma
forse
un
rappresentante
di
una
istituzione
della
laica
Repubblica
italiana
poteva
evitare
di
pubblicizzare
il
suo
gesto.”
Così
ha
trasformato
una
festa
civile
in
festa
religiosa”,
scrive
Fabio
Baldassarri,
un
tempo
giornalista
dell’Unità,
in
seguito
presidente
della
provincia
di
Livorno
e
sindaco
di
Piombino.
Inoltre
la
Madonna
di
Montenero
fu
proclamata
nel
1947
“Patrona
della
Toscana”
da
Papa
Pio
XII
che
vedeva
i
comunisti
come
il
fumo
negli
occhi.
Probabilmente
la
scelta
di
Livorno
serviva
per
propagandare
la
Fede
nella
città
che
allora
era
la
più “rossa” della regione.
I
risultati
elettorali
hanno
dato
a
Giani
il
48
per
cento
di
voti
(31
del
Pd)
contro
il
40
della
leghista
Susanna
Ceccardi
ex
sindaca
di
Cascina
e
nota
per
aver
organizzato
nel
giorno
del
25
aprile
del
2018
una
sfilata
cui
partecipava
anche
un
manipolo
travestito
da
SS
tedesche.
Aggiungo
per
la
cronaca
che
a
Sant’Anna
di
Stazzema,
il
paese
in
cui
i
nazisti
trucidarono
560
persone,
la
Ceccardi
ha
ottenuto
il
52
per
cento. Il tutto è passato quasi inosservato, anche all’interno del Pd.
Per
l’anniversario
della
nascita
del
Partito
comunista,
Giani
è
tornato
a
Livorno
e
in
veste
ufficiale
ha
partecipato
alla
commemorazione
nel
teatro
Goldoni
e
poi
al
San
Marco
dove
nel
’21
si
erano
trasferiti
gli
scissionisti.
Quest’ultimo
teatro
fu
distrutto
dalle
bombe
durante
la
seconda
guerra
mondiale
ed
è
rimasto
in
macerie
per
decenni.
Una
piccola lapide e una corona ricordano l’avvenimento della scissione.
Spero
che
questa
premessa
possa
servire
a
indicare
una
delle
mutazioni
del
Partito
che
un
tempo
era
il
più
importante
dell’Europa
occidentale.
Non
sono
e
non
sono
mai
stato
un
fanatico
del
Pci
e
mai
iscritto,
ma
sin
da
piccolo
ne
ho
seguito
un
pezzo
della
sua
rinascita
attraverso
i
miei
genitori,
immediatamente
dopo
la
Liberazione.
Mia
madre,
Maria,
nel
luogo
in
cui
eravamo
sfollati
nel
corso
del
conflitto
partecipò
alla
Resistenza
e
diventò
comunista.
Mio
padre
Ugo,
ufficiale
dell’esercito
italiano
in
Slovenia,
dopo
l’8
settembre
rifiutò
la
resa
ai
tedeschi
e
combatté
con
i
partigiani
jugoslavi.
Di
lui
per
più
di
un
anno
non
avemmo
sue
notizie
e
finalmente
ricongiunti,
i
miei
genitori
si
scoprirono entrambi comunisti.
A
quei
tempi
vivevamo
a
Barletta,
una
città
di
70
mila
abitanti,
grosso
centro
agricolo
che
forniva
al
latifondo
migliaia
e
migliaia
di
braccianti.
Non
esisteva
mezzadria.
I
padroni
dei
terreni
vivevano
nelle
rare
masserie
o
nei
palazzi
di
città.
Anche
i
contadini
abitavano
nei
centri
urbani.
A
Barletta
alloggiavano
con
moglie
e
tanti
figli
nei
“bassi”,
in
uno
o
due
locali
senza
acqua
corrente
e
servizi
igienici.
Nella
notte
anche l’asino veniva ospitato in un angolo dell’abitazione.
Tra
questa
gente
i
miei
genitori
incominciarono
a
fare
propaganda
per
il
partito
e
mio
padre,
dirigente
del
Comune,
fondò
la
prima
sezione.
Mia
madre,
maestra
elementare,
la
sezione
femminile
con
una
ex
prostituta,
una
raccoglitrice
di
olive
e
una
lavandaia.
Le
sue
ex
amiche
borghesi
di
prima
della
guerra,
le
tolsero
il
saluto.
Mio
padre
subiva
il
controllo
continuo
della
Prefettura
e
della
Questura.
Da
noi
si
fermava
spesso
Giuseppe
Di
Vittorio.
Il
Partito
gli
aveva
fornito
una
vecchia
“1100”
d’anteguerra
per
spostarsi
nei
suoi
comizi
in
Puglia.
Dalla
Federazione
del
Pci
di
Bari
venivano
in
tanti
a
dare
una
mano
per
organizzare
comizi,
riunioni.
Arrivavano
col
treno
portandosi
dietro
da
mangiare
e
rientravano
la
sera.
Le
trattorie,
i
ristoranti
rappresentavano
un
miraggio.
Si
dividevano
i
compiti
per
andare
a
parlare
con
la
povera
gente,
con
i
contadini,
i
muratori
e
i
pochi
operai,
nei
paesi
e
nelle
campagne,
per
far
comprendere
loro
che
dovevano
reagire
alla
atavica
oppressione
dei
padroni.
Questo
accadeva
in
tutta
l’Italia
e
i
frutti
si
sentirono
alle
elezioni
per
la
Costituente del 1946. Il Pci in Sicilia era il partito con più voti.
Poi
vennero
le
elezioni
politiche
del
18
aprile
del
1948
con
una
accesa
battaglia
politica.
La
Dc
con
il
totale
aiuto
della
Chiesa,
il
finanziamento
degli
americani
e
la
polizia
di
Scelba,
si
mobilitò
in
una
feroce
campagna
anticomunista.
Ricordo
i
manifesti
elettorali
che
dicevano:
”Nell’urna
Dio
ti
vede,
Stalin
no”.
Le
numerose
automobili
della
Propaganda
fide
munite
di
altoparlanti
che
percorrevano
le
strade
diffondendo canti religiosi.
La
sconfitta
del
Fronte
Popolare
tra
PCI
e
PSI
fu
netta,
tranne
in
Emilia-Romagna
e
Toscana.
In
Sicilia
il
PCI
venne
dimezzato,
grazie
al
terrore
diffuso
dalla
mafia
e
dai
suoi
burattinai
democristiani.
La
strage
di
Portella
della
Ginestra
e
l’uccisione
di
alcuni
sindacalisti
avevano
portato
il
terrore
nelle
campagne.
Dopo
quella
sconfitta,
il
partito
riprese
la
sua
lenta
risalita
fino
alle
elezioni
del
1976
quando
ottenne
il
35
per
cento
di
voti
rispetto
al
38
della
Dc
e
il
15
del
Psi.
I
numeri
dicevano
che
la
sinistra
unita
avrebbe
potuto
governare,
ma
il
grande
potere
che
dominava
l’Italia
e
la
opprimente
sorveglianza
degli
Stati
Uniti
non
lo
avrebbero
permesso.
Il
golpe
in
Cile
di
tre
anni
prima
contro
Allende
avrebbe
potuto
ripetersi
anche
da
noi.
All’attentato
di
Piazza
Fontana
ne
erano
seguiti
tanti
altri
e
le
radici
della
loggia
massonica P2 si stavano estendendo.
Il
Pci,
che
aveva
ottenuto
la
maggioranza
alle
amministrative
di
Milano,
cedette
incomprensibilmente
la
guida
della
città
ai
socialisti
della
“Milano
da
bere”.
Mario
Melloni,
il
“Fortebraccio
dell’Unità”
commentò
così
quella
resa:
”I
socialisti
se
ne
stanno
nel
salotto
del
palazzo
a
bere
champagne,
mentre
i
comunisti
rimangono
in
portineria
a
bere
gazzosa”.
E
sappiano
che
fine
hanno
fatto
Craxi
e
i
suoi
seguaci
a
furia
di bere!
Il
declino
del
Pci,
già
latente,
ha
seguito
la
crisi
delle
sinistre
europee;
il
fenomeno
si
è
manifestato
in
pieno
dopo
la
scomparsa
di
Berlinguer,
la
caduta
del
Muro
di
Berlino
e
la
fine
dell’URSS.
Queste
sono
state
le
cause
più
evidenti,
ma
in
realtà
l’opinione
pubblica
e
la
classe
politica
erano
mutate.
Le
nuove
generazioni
cresciute
nel
boom
economico,
che
ha
sviluppato
l’economia
e
non
la
coscienza
sociale
e
culturale
del
Paese,
non
sono
state
in
grado
di
guidare
la
massa
dei
cittadini
scontenti, frustrati e abbandonati politicamente.
Il
PCI
si
è
spento
con
la
chiusura
delle
sue
sezioni,
l’inefficienza
delle
federazioni
e
gli
scontri
interni.
Il
regista
Nanni
Moretti
nel
2002
sottolineò
la
decadenza
quando,
salito
sul
palco
di
un
comizio
del
Pd
in
piazza
San
Giovanni
a
Roma,
disse
rivolgendosi
ai
dirigenti:
”
Non
perdete
tempo
a
discutere
sul
nulla;
non
fate
più
capricci
ma
discutete
sul
modo
di
vincere
le
elezioni
e
non
perdete
tempo
in
continui
scontri
personalistici
sui
vertici;
sono
ripicche
che
non
ci
importano
più
niente”.
Qualche
anno
dopo
è
arrivato
Renzi,
un
derivato
della
Dc,
un
individuo
che
ha
infiammato
gli
animi,
anche
di
molti
vecchi
comunisti,
con
la
parola
rottamazione
e
oggi
gestisce
una
partita
politica
come
un
giocatore
di
poker.
E
pensare
che
costui
ha
guidato
il
Pd
e
il
governo
italiano per alcuni anni.
Se
qualcuno
crede
che
nel
Pd
sia
rimasta
qualche
fiammella
del
vecchio
PCI,
purtroppo
si
sbaglia.
Nella
sinistra
ci
sono
persone
per
bene
che
portano
i
ceri
per
grazia
ricevuta
e
altre,
indegne
di
fare
politica,
che
elogiano
l’Arabia
Saudita.
Non
è
rimasto
altro
se
non
il
teatro Goldoni e la lapide al San Marco, in macerie, a Livorno.
Ettore Vittorini.
Barletta, 1940.
Giornalista, docente e
scrittore
vive e lavora
a Guardistallo (PI).