© Tessere il futuro / Sito realizzato da un gruppo di artisti per i cento anni dalla nascita del PCI / 1921-2021
ADELIO FUSE’.
Gorla Maggiore, 1958.
Scrittore e poeta
vive a Milano.
Un racconto dal passato
Messaggio per un secolo
di Adelio Fusé
1.
Quante
volte
ho
cercato
il
volto
di
mio
padre
nelle
foto
di
quei
giorni
livornesi,
mentre
la
comunità
socialista
si
divideva.
Suvvia,
già
due
erano
le
parti:
i
riformisti
"tiratardi",
così
li
chiamava
mio
padre,
e
loro,
i
rivoluzionari
cui
la
terra
bruciava
sotto
i
piedi.
Accomodante
in
famiglia
e
con
gli
amici,
era
invece
intransigente
e
impaziente
con
i
propri
obiettivi
massimi.
Gli
ideali,
diceva,
non
aspettano.
E
lui
trovava
imperdonabile
farli
aspettare.
Sono
lì,
immobili
come
la
Stella
polare,
gli
ideali,
ma
pretendono
una
navigazione
veloce.
Voleva
mosse
rapide,
mio
padre,
e
accelerava.
"Se
il
tempo
aveva
mani,"
mi
raccontava
mia
madre,
"lui
se
le
sentiva
strette
intorno
al
collo,
e
per
non soffocare, agiva."
Le
foto
lui
le
aveva
ritagliate
dai
giornali
dell'epoca,
e
mia
madre
prima,
io
e
miei
fratelli
poi,
nei
decenni
le
abbiamo
sempre
trattate
con
la
cura
che
meritavano.
Il
suo
volto
serio
che
ricaccia
dentro
la
dolcezza
lo
trovavo
facilmente
in
altre
foto.
Una
volta
cresciuta
e
in
grado
di
capire,
mi
è
sempre
parso
di
scorgere
nel
suo
sguardo
il
riflesso
dei
valori
per
cui
lui
combatteva.
Perché
allora
ho
sempre
avvertito
il
bisogno
di
scovarlo
là,
il
suo
volto,
nella
folla
dei
compagni,
compresi
i
"tiratardi"?
La
domanda
è
retorica.
Si
agisce
in
proprio,
ma
il
contributo
personale
perde
senso
se
non
sfocia
in
un'unica
grande
azione collettiva. Questo era mio padre.
Livorno,
21
gennaio
1921:
al
teatro
San
Marco
nasceva
il
Partito
comunista
d'Italia.
Quel
giorno
sono
venuta
al
mondo
anch'io,
sulla
stessa
costa
ma
più
nord,
ad
Ameglia,
in
una
casa
fra
gli
ulivi.
Per
lui
io
fui
una
sorpresa.
La
levatrice
gli
aveva
assicurato
che
il
parto
non
ci
sarebbe
stato
e
anche
mia
madre
lo
aveva
convinto
che
rimaneva
un
buon
margine,
ma
solo
per
rincuorarlo,
lei
sentiva
che
non
mancava
molto.
E
io,
nei
momenti
tristi
della
mia
vita,
eccomi
sempre
a
scandagliare
con
una
lente
quelle
foto
in
cerca
del
suo
volto
fra
i
volti
dei
compagni
e
delle
compagne.
Perché
c'erano
anche
le
compagne, sapete?
Andava
fiero
del
cognome
che
portava:
Giusti.
Una
bella
tradizione
da
perpetuare.
Un
fratello
di
mio
padre
e
il
mio
nonno
paterno
erano
simpatizzanti
socialisti,
e
per
un
po',
dopo
la
scissione,
si
guardarono
di
traverso.
"Stai
sbagliando
e
state
sbagliando.
Siamo
più
deboli
noi
e
sarete
deboli
voi",
lo
provocavano.
Mio
padre
insisteva
per
portarli
dalla
propria
parte:
"Se
vi
sentite
deboli,
non
avete
che
da
venire
con
noi.
Noi
siamo
già
una
forza!".
Ma
non
smisero
mai
di
volersi
bene,
e
poi
alcuni
nemici
erano
in
comune,
gente
pronta
a
ripararsi sotto lo stesso sciagurato ombrello, quello di Mussolini.
Io,
la
prima
di
tre
figli,
divenni
Letizia:
il
sogno
che
si
fa
realtà
al
di
là
della
vita
dura.
A
chiamarmi
così
fu
mia
madre,
mio
padre
si
limitò
ad
acconsentire.
Intanto
era
entrato
nel
mirino
delle
squadracce
in
camicia
nera,
né
poteva
essere
altrimenti:
guardato
a
vista,
sotto
minaccia
e,
in
crescendo,
battuto
a
sangue
("mi
hanno
torchiato
come
le
nostre
olive").
Non
si
dava
pace:
era
stata
fra
le
peggiori
umiliazioni
farsi
mettere
sotto
così
da
"quelli".
Lo
consideravano
un
pericolo,
e
in
questo
non
avevano
torto:
uno
capace
di
trasferire
gli
effetti
di
una
mareggiate
dalla
costa
fino
in
cima
alle
montagne.
Propagandava
e
sobillava.
"Qui
io
finisco
sotto
il
torchio
ma
non
le
nostre
olive",
disse,
quando
iniziò
a
passare
le
notti
a
sorvegliare
l'oliveto,
dopo
che
avevano
tentato
di
appiccare
un
incendio.
Poi,
a
raccolta
avvenuta,
gli
fu
impedito
l'accesso
al
torchio.
Lasciare
la
famiglia
per
la
Francia
per
lui
fu
una
sconfitta.
Era
nato
intanto
mio
fratello
Armando,
Enrico,
il
più
piccolo,
sarebbe
giunto
più
tardi;
mia
madre,
che
aveva
da
poco
scoperto
la
nuova
gravidanza,
non
disse
niente
a
mio
padre,
era
necessario
che
lui
partisse,
per
salvare
sé
stesso
e
per
salvare
noi.
Mia
madre
lo
aveva
sempre
appoggiato,
la
fede
era
la
stessa,
ma,
d'accordo
con
lui,
stava
coperta
e
attenta,
nemmeno
una
parola
con
chicchessia
sulla
vita
politica.
La
notte
che
mio
padre
salpò,
la
mareggiata era di altra specie, e tutta interiore.
Dalla
Francia
scrisse
lunghe
lettere,
un
poco
sgrammaticate,
ma
che
importava?
Le
consegnavano
a
mia
madre
dopo
averle
aperte
e
richiuse
male,
per
far
capire
che
non
passavano
inosservate.
Le
ho
ancora
con
me,
nella
stessa
casa
dove
sono
nata,
in
fondo
rimasta
uguale
e
cambiata
solo
per
tamponare
gli
inevitabili
cedimenti.
Lì,
prima
del
mio
definitivo
ritiro
dalla
vita
pubblica,
sempre
tornavo
a
ritemprarmi
o
leccarmi
le
ferite
per
le
battaglie
perse.
E
l'oliveto,
solo
poche
terrazze,
non
è
mai
andato
in
malora,
anche
se
non
per
merito
mio ma per il lavoro di altri a cui lo avevo affidato. E ancora produce.
Poi
smise
di
scrivere,
o
comunque
mia
madre
smise
di
ricevere
le
sue
lettere.
L'ultima
dalla
Francia
non
portava
la
sua
firma
ma
quella
di
un
compagno
addolorato:
un
sicario
aveva
freddato
mio
padre
qualche
giorno
dopo
il
congresso
del
Partito
a
Lione,
nel
1926.
Era
un
pesce
piccolo,
ma
diventava
sempre
più
grosso
e
gli
fecero
l'onore
di
prenderlo nella rete.
2.
E
questo,
invece,
è
un
manifesto
celebrativo.
Il
Sole
spunta
sopra
l'orizzonte
e
sale,
per
ora
è
un
mezzo
cerchio.
I
raggi
sono
simili
a
frecce
conficcate?
Sono
le
sofferenze
patite
ma
nello
stesso
tempo
un
annuncio.
E`
l'aurora,
si
va
verso
l'avvenire.
Il
nome
del
Partito,
inciso
nel
semicerchio,
ne
segue
il
profilo:
coincide
dunque
con
il
Sole
e
la
fede
in
ciò
che
verrà
e
sarà.
Sotto,
campeggia
l'anno
della
fondazione
–
1921
–,
ponte
fra
il
nome
e
la
falce
e
il
martello,
da
cui
spuntano,
come
due
ali,
le
spighe.
Da
un
promontorio
due
uomini
osservano
e
salutano.
Ci
dovrebbe
essere
sempre
un
avvenire
da
salutare.
Uno
dei
due
è
di
spalle,
mostra
appena
il
volto,
sembra
giovane.
Nella
mano
sinistra
impugna
un
badile,
nella
mano
destra,
regge
il
berretto,
il
braccio
sollevato
interseca
quello
dell'amico
e
compagno.
Un
incrocio
speculare
alla
falce
e
al
martello.
Ma
sono
forse,
chissà,
l'uno
il
figlio,
l'altro
il
padre.
Il
secondo
uomo
si
mostra
di
profilo,
anch'egli
con
la
mano
sinistra
posata
sul
manico
del
badile,
lo
si
percepisce
più
anziano
e
più
provato
del
primo,
che
emana
invece
una
controllata
fierezza:
una
staffetta
di
generazioni,
nell'insieme
sobria,
e
con
il
decoro
e
la
dignità
di
chi
non
ostenta.
O
non
ha
bisogno
di
vuote
esibizioni,
perché
gli
intenti
di
una
fede
parlano
comunque
con
voce
chiara.
C'è
del
misticismo?
Come
in
ogni
fede.
Ma
loro
hanno
piedi
ben
piantati
nel
suolo.
Non
dimenticano
certo la terra, loro, frequentano la fatica.
Il
disegno
è
in
bianco
e
nero
ma
i
colori
si
possono
pur
sempre
aggiungere.
No,
non
nel
disegno!
Nella
realtà!
I
colori
smaglianti
e
luminosi
degli
ideali,
anzitutto.
Quanti
sono?
La
tavolozza
è
ricca
ma
convergono
in
uno.
Il
rosso
della
passione
civile,
quello
del
sangue
versato.
Io
non
ne
ho
versato:
sono
ancora
qui,
in
una
porzione
del
pianeta
Terra,
ma
non
sono
sola,
sono
parte
di
una
Storia.
Penso
ai
molti
che
hanno
perso
la
vita
cedendola
a
un
ideale
e
tanto
basta
per
averli
con
me.
Siamo
insieme:
loro
e
io,
io
e
loro.
E
fra
loro
e
voi,
nella mia parte di sopravvissuta, ho i doveri di una intermediaria.
I
due
uomini
sono
i
protagonisti
di
una
storia
finita
e
tradita?
Gli
eredi.
Bisogna
chiedere
agli
eredi.
Che
ne
hanno
fatto
e
cosa
ne
faranno
del
lascito.
Voci
contrarie
sentenziano
che
i
due
compagni
sul
promontorio,
visti
con
gli
occhi
di
oggi,
non
inviano
un
saluto
all'alba
e
a
una
nascita
ma
al
tramonto
e
a
una
morte.
Il
loro
gesto
di
saluto
sarebbe
allora
un
congedo.
Un
addio.
Qui,
intanto,
si
celebra
un'alba.
Preferite
credere
che
sia
ormai
un
tramonto?
L'alba
e
il
tramonto
non
sono
solamente
gli
estremi
del
giorno:
i
colori
dell'alba
possono
richiamare
il
tramonto
e
quelli
del
tramonto
l'alba.
Ma
la
speranza
trova posto nell'alba: nel tramonto non la troverete.
"Domani
mattina
si
va
a
vedere
l'alba
al
Poggio
e
serve
un
badile",
ho
detto
a
Consuelo.
Vive
con
me
da
anni
e
mai
l'ho
vista
mescolare
in
quel
modo
stupore
e
spavento.
Ha
sporto
gli
occhi
scuri
sopra
la
mascherina,
come
se
le
dovessero
rotolare
via.
Il
luccichio
solito
che
hanno
dentro
si
era
spento:
il
mio
anziano
cervello
aveva
forse
mandato
un
repentino
e
temuto
segnale
di
crollo
e
lei
ne
era
rimasta
impressionata?
E`
stagione
fredda,
questa,
e
all'alba
poi!
E
il
badile!
E
forse
avrei
persino
proposto
di
raggiungere
il
Poggio
andando
su
camminando. Ma no, Consuelo, al Poggio mi ci porti con l'auto.
Non
ci
sarà
la
grande
festa
prevista
per
i
miei
cent'anni,
quella
che
mio
figlio
e
i
miei
nipoti
e
bisnipoti
avevano
pianificato
con
largo
anticipo,
prima
che
il
virus
diventasse
il
padrone.
Abbiamo
mantenuto
i
contatti,
non
mi
hanno
certo
abbandonata.
E
altri
si
sono
fatti
vivi
nelle
maniere
più
varie
e
fantasiose.
Sono
fioccate
le
interviste
a
distanza,
una
donna
centenaria
fa
notizia.
Vogliono
la
militante
e
la
partigiana,
la
figlia
di
Lorenzo
Giusti,
attiva
nella
Resistenza
con
i
due
fratelli
e
sua
madre,
la
famiglia
al
completo;
vogliono
la
femminista,
la
deputata,
persino
la
pittrice
e
la
scultrice
che
sono
diventata
nella
vecchiaia,
finché
le
mani
me
lo
hanno
permesso.
Vogliono
poi
la
mia
vita
privata,
giù
fino
ai
miei
amori.
I
miei
viaggi,
le
città
dove
ho
abitato,
la
casa
natale
dove
infine
ho
riaffondato
le
miei
radici,
del
resto
mai
recise.
Spalanco
la
mia
memoria,
che
non
balla
inaffidabile,
e
la
metto
a
disposizione.
Rispondo
alle
domande
e
la
mano,
stretta
intorno
al
cellulare,
trema,
e
la
voce
a
volte
si
abbassa
e
l'udito,
benché
aiutato
dall'apparecchio
acustico,
fa
i
capricci.
Ma
i
ricordi,
no,
quelli
ci
sono
tutti
nella
loro
grande
girandola:
il
segreto
è
lasciarli
liberi.
E
non
contengono,
badate,
cimeli
impolverati.
Se
della
polvere
c'è,
sta
a
voi
toglierla
e
renderli
ancora
utili,
perché
non
sono
pezzi
della
mia
storia
soltanto,
io
non
sono
che
una
voce
dentro
a
un
coro,
e
quello che serve ascoltare è proprio il coro.
Arriviamo
al
Poggio
con
la
prima
luce
che
si
sta
formando.
Si
fa
presto
a
intuire
che
l'alba
sarà
radiosa,
come
una
promessa
mantenuta.
La
luce
crescerà
e
ci
saranno
i
colori
attesi.
L'aria
è
fredda
e
punge,
sì,
ma
la
respiro
a
polmoni
pieni,
"e
questo,
Consuelo,
non
è
il
mio
ultimo
sospiro,
non
ancora".
Abbassata
la
mascherina,
sento
l'aria
infilarsi
spedita
in
ogni
mia
ruga,
e
diventare
poi
acqua
che
si
incanala.
Ho
il
viso
solcato
da
tanti
ruscelletti.
"Respira,
Consuelo,
respira
questa
meraviglia."
E
poi,
ecco,
scivolano
le
lacrime,
assaporo
il
momento,
lei
non
se
ne
accorge
o
finge.
Quando
mi
aiuta
ad
alzarmi
dalla
sedia
a
rotelle,
ho
di
nuovo
il
viso
per
metà
nascosto
dalla
mascherina
ma
gli
occhi devono essere ancora arrossati.
Consuelo
non
ha
la
presa
salda
che
le
conosco,
qualcosa
la
turba,
ma
io
desidero
rimanere
in
piedi
almeno
un
poco,
anzi
il
tempo
che
sarà
necessario.
"Sta
per
arrivare
tuo
figlio",
mi
ricorda
seria,
come
per
trattenermi.
Giustifico
la
sua
preoccupazione:
non
posso
offrirmi
a
lungo
a
questo
freddo.
"Non
a
quest'ora.
Lorenzo
verrà
più
tardi",
le
dico.
Mio
figlio
porta
il
nome
di
mio
padre.
Lei
ha
fretta
di
portarmi
via,
si
sente
responsabile.
E
forse
anch'io
dovrei
essere
responsabile
con lei. "Consuelo, respira," le dico ancora.
Non
sarà
la
patetica
cerimonia
di
una
donna
centenaria
con
la
mente
ormai
in
panne.
Comunque
non
posso
costringere
Consuelo
a
prendervi
parte:
non
comprende
il
mio
gesto,
le
ho
descritto
quello
che
sta
per
succedere.
Se
la
forzassi
nella
parte
della
comparsa,
sì,
cadrei
nel
pietoso,
sarei
persino
volgare.
Lei
è
qui,
alle
mie
spalle,
pronta
a
sorreggermi,
io
per
prima
mi
credevo
più
malferma
di
quanto
non
sia;
il
manico
del
badile
è
il
mio
bastone.
Non
avertene
a
male,
Consuelo,
questa volta posso fare da me.
Il
Sole
si
affaccia
e
sale,
e
io
sono
pronta
ad
accoglierlo,
una
mano
sul
manico
del
badile,
l'altra
che
stringe
il
mio
berretto
di
lana
sollevato
nell'aria.
Il
braccio
è
teso
e
ne
incrocia
un
altro:
mio
padre
è
qui,
accanto
a
me.
Una
figura
d'aria
che
ne
include
innumerevoli
altre:
mia
madre,
i
miei
fratelli,
altre
famiglie
e
gruppi;
le
compagne
e
i
compagni
che
hanno
fatto
con
me
la
mia
vita
o
l'hanno
attraversata
solo
per
poco
ma
lasciando
un
segno;
chi
avrei
potuto
conoscere
e
non
ho
mai
incontrato;
chi
è
entrato
nei
libri
e
ora
è
dimenticato;
e
chi
non
ha
mai
avuto
il
privilegio
di
una
riga.
Questa
catena
umana,
che
spezza qualunque altra catena, la vedo nel Sole, dove si specchia.
LA POLITICA E LA
PITTURA…
di Marco Seveso
Questa
pagina
è
tratta
da
un
vecchio
diario
di
mio
fratello
Marco,
pittore
scomparso tre anni fa.
Se
una
malattia
bastarda
e
fulminea
non
l’avesse
portato
via
so
per
certo
che sarebbe stato anche lui tra i promotori di questa nostra iniziativa…
Per
questo
mi
sono
deciso
a
pubblicarlo
qui,
insieme
ad
una
sua
immagine
di argomento «politico». (G.S.)
Sono assalito da dubbi circa il mio pensiero
sulla cultura e sulla politica. Dubbi che investono
anche la mia azione di pittore.
Cosa dipingere?
Verrebbe facile dire: l’uomo e il suo ambiente.
Dipingere bene ha ancora senso!
Peccato che il pittore non goda oggi di alcuna
considerazione: le opere non interessano,
il pittore è un soprammobile per i ricchi,
un mito per la classe media.
Può essere però un bene: i pittori bravi oggi
provengono dalle classi povere.
Ma a chi parlano i pittori?
Nessuno li sente.
Finché giungeranno a gridare così forte che
tutti ne avranno i timpani rotti.
Così è il pittore.
«A forza di fatica il bruco
diventa la ricca farfalla.» (Apollinaire)
(14/02/1968)
Marco Seveso.
Sanremo 1945 - Torino 2018.
Pittore, è stato a lungo iscritto al
PCI, per il quale è stato anche
Consigliere alla Provincia di Torino.
Marco Seveso,
Cosa rimiri mio bel partigiano,
60x50cm, olio su tela, 2010
CONTRO LA GUERRA
IN VIETNAM…
Ecco
un
artista
francese,
purtroppo
prematuramente
scomparso
diversi
anni
fa,
di
grande
talento
e
forte
personalità.
Ha
lasciato
nel
nostro
Paese
tracce
robuste di una figurazione inimitabile e profonda.
L’opera
qui
riprodotta,
tra
le
sue
rare
di
impegno
esplicitamente
politico,
era
stata
realizzata
per
una
collettiva
sul
tema
della
guerra
del
Vietnam
a
una
Festa
de
l'Unità
provinciale
di
Savona
nel
1966.
Attualmente
fa
parte
della
savonese collezione della “Fondazione Cento Fiori”.
DANIEL BEC.
Cannes (Francia) 1940 - Genova 2008.
Pittore, disegnatore e incisore
formatosi tra Nizza e Parigi, dal 1964 ha
vissuto in Italia ad Albisola e
successivamente a Genova.
Daniel Bec,
VietNam,
acrilico su cartoncino,
101x64cm, 1966
SE IL CORAGGIO DEI FIGLI…
da Ipotesi di felicità (Mondadori 2017)
di Alberto Pellegatta
Non sei neanche più la sciatta
che mendica nell’angolo più sporco,
truccata pesante offri labbra repellenti.
Nei tuoi orti non cresce neanche l’ortica.
A cosa è servito compilare saggi e versi
se poi si arriva a questo?
Se il coraggio dei figli è la paura
dei padri e la maggioranza soffoca l’Italia intera.
Alberto Pellegatta.
Milano, 1978.
Poeta e critico d’arte
vive a Milano.
Un racconto breve…
L’INCARICO
di Sauro Largiuni
«Da
tempo
aveva
lasciato
il
lavoro
per
la
prolungata
esposizione
alle
polveri
e
ai
fumi
tossici
della
fabbrica.
Ormai
aspettava
solo
il
manifestarsi
della
malattia
di
cui
gli
erano
purtroppo
noti
i
segni
osservati
già
in
diversi
compagni
di
lavoro
morti
negli
anni.
Si
era
quindi
stupito
quando
la
nuova
dirigenza
del
vecchio
stabilimento
lo
aveva
convocato
affidandogli
–
a
compenso
del
riconoscimento
dei
requisiti
indispensabili
alla
pensione
anticipata
–
l’incarico
di
compiere
la
ricognizione
accurata
di
ogni
reparto
da
demolire.
All’inizio
la
lunga
pratica
di
lavoro
e
la
perfetta
conoscenza
della
fabbrica
gli
erano
sembrate
trappole
da
evitare
ad
ogni
costo.
Aveva
quindi
indugiato
prima
di
accettare,
poi
però
il
timore
di
perdere
i
soldi
del
“rischio
malattia”
ed
anche
la
possibilità
di
tornare
l’ultima
volta
là
dove
aveva
speso
gran
parte
della
sua
vita
lo
avevano
convinto
ad
acconsentire.
Una
decisione
a
cui
si
era
fra
l’altro
accompagnata
la
sensazione
di
avere
una
parte
nel
destino di un luogo tanto importante per il suo.
In
realtà
fin
dal
primo
sopralluogo
egli
restava
attonito
e
sgomento
di
fronte
a
come
e
quanto
il
tempo
e
l’incuria
avessero
sconvolto
lo
stabilimento
rendendo
quasi
irriconoscibili
i
suoi
reparti.
Nulla
pareva
essersi
salvato.
Nemmeno
quel
poco
che,
rintoccando
tra
i
finestroni
rotti
o
sbattendo
fra
le
brecce
dei
capannoni
sfondati,
pareva
scuotersi
soltanto
per
celebrare
con
quei
lugubri
intermittenti
saluti
la
caduta
finale
o
aspettare
l’estrema
e
violenta
ventata
che,
volandolo
via
facilmente,
avrebbe
posto
compassionevolmente fine alla sua interminabile agonia.
Una
sterminata
desolazione
che
non
avrebbe
potuto
opporre
alcuna
resistenza
alle
macchine
attrezzate
e
alle
squadre
specializzate
nelle
operazioni
di
abbattimento
e
bonifica
dell’opificio
dismesso.
Tuttavia
l’incaricato,
non
volendo
venir
meno
al
compito
ricevuto,
seguitava
per
giorni
le
sue
meticolose
ricognizioni
finché
una
notte
piovosa
non
giungeva
davanti
ad
un
alto
muro
scortecciato.
Una
possente
barriera
di
confine
oltre
la
quale
c’era
un’altra
fabbrica
dove
fervevano
diuturne
attività
e
cresceva
di
continuo
la
produzione
grazie,
si
diceva,
alla
manodopera
irregolare
degli
schiavi
(così
chiamati
dai
più)
che
lavoravano
sempre
e
non
si
lamentavano
mai.
Sulla
balza
del
muro
s’apriva
una
larga
crepa
che,
restringendosi
a
poco
a
poco,
risaliva
la
parete
striata
di
muschio
e
solcata
dai
rivoli
di
pioggia
che
al
suolo
erano
inghiottiti
dentro
una
botola
dal
cui
coperchio,
lentamente
schiuso,
sbucava
uno
che
scivolando
nel
fango
si
avvicinava
alla
fessura
dove impaziente accostava gli occhi.
«Ciò
che
riesco
a
vedere,»
diceva
senza
staccarsi
dall’incrinatura
e
volgendo
le
spalle
all’incaricato
«mi
basta
ad
aspettare
che
questa
spaccatura
si
allarghi…»
allungando
le
mani
sui
labbri
della
crepa
come
a
volerla
dilatare
«per
andare
di
là
dove,
confondendomi
con
gli
schiavi,»
lasciando
ricadere
le
dita
e
voltandosi
di
colpo
«potrei
ancora
lavorare.»
mostrando
le
piaghe
delle
mani
e
gli
sfregi
sul
viso
che
la
pioggia
sembrava
pietosamente
lenire
e lavare.
Nella
notte
la
pioggia
era
smessa.
L’incaricato
era
rimasto
ad
ascoltare
fino
a
bruzzico
l’altro
che,
ubbidendo
a
un
invisibile
quanto
implacabile
segnale
di
minaccia
nascosto
tra
gli
albori,
riapriva
il
coperchio
e
spariva
nella
botola
lasciandolo
nella
più
gravosa
incertezza.
Se
infatti,
nei
giorni
seguenti,
avesse
messo
al
corrente
lo
scomparso
delle
intenzioni
della
committenza
questi
si
sarebbe
perso
certamente
d’animo
rinunciando
alla
speranza
di
allargamento
dell’incrinatura
e
quindi
rassegnandosi
alla
sua
tragica
sorte.
Se
invece
avesse
avvisato,
com’era
suo
dovere,
la
direzione
di
quella
importuna
presenza
essa
avrebbe
sicuramente
accelerato,
se
non
anticipato, le operazioni di smantellamento dell’opificio.
Alla
fine
l’incaricato
decideva
di
non
dire
nulla
ad
alcuno.
E
quando
le
macerie
degli
abbattimenti
s’accatastavano
al
muro
di
confine
nessuno
poteva
sapere
se
avessero
chiuso
la
crepa
dopo
che
si
era
tanto
allargata
da
poterla
varcare
oppure
l’avessero
sigillata
prima
che
le
macchine
completassero le operazioni di bonifica della nuova area edificabile.»
Questo
racconto
breve,
tratto
dalla
raccolta
in
corso
«Sverze»,
è
dedicato
in
particolare
ai
lavoratori
della
ferriera
della
mia
città
natale
e
più
in
generale
ai pochi che sanno ancora lavorare e ai troppi che il lavoro non hanno più.
SAURO LARGIUNI.
Scrittore,
è nato a San Giovanni
Valdarno (AR) nel 1953.
Ambiente musicale
Alla ricerca dell’egemonia
culturale perduta:
da Claudio Villa a Luigi Nono
di Michele Coralli
1957:
Un
giovane
e
già
carismatico
Claudio
Villa
vince
il
Festival
di
Sanremo
con
la
canzone
Corde
della
mia
chitarra
.
Questo
avviene
nonostante
una
celebre
stecca
che
fornisce
alla
stampa
il
pretesto
per
attaccare
il
personaggio,
anche
a
causa
di
una
certa
boria
e
di
una
esibita
sicumera
vocale
espressa
attraverso
fioriture
e
virtuosismi
che
incontrano
sempre
i
gusti
del
grande
pubblico.
Nonostante
la
stonatura,
Villa
vince
ma,
come
da
tradizione,
la
stecca
porta
con
sé
un
seguito
di
polemiche,
cavalcate
ad
arte
dal
settimanale
«TV
Sorrisi
e
Canzoni»,
il
quale
indice
addirittura
un
referendum
tra
i
favorevoli
e
i
contrari
al
“reuccio”,
a
breve
distanza,
tra
l’altro,
dalla
discesa
in
campo
di
un
onorevole
missino
che
muove
niente
meno
che
un’interrogazione
al
ministro
delle
Poste
e
delle
Telecomunicazioni!
Per
non
far
mancare
punti
di
vista
autorevoli,
sul
giornale
è
chiamato
a
intervenire
anche
Pier
Paolo
Pasolini,
che
in
maniera
molto
asciutta
commenta:
“
Mi
piace
il
repertorio
delle
canzoni
melodiche
di
Claudio
Villa,
perché
mi
piace
il
pubblico
che
ama
questo
stile
popolare
e
verace
”
(mutatis
mutandis,
un
pensiero
affatto
dissimile
da
quanto
poi
espresso
in poesie come
Transumanar e organizzar
, 1971).
A
dirla
tutta,
però,
Claudio
Villa
è
perfettamente
in
grado
di
difendersi
da
solo,
da
par
suo,
ovvero
in
modo orgoglioso e antipatico a molti:
“
Giunto
alle
più
alte
sfere
della
popolarità,
ho
provato
a
piegarmi
dall'alto
del
piedistallo
su
cui
mi
hanno
fatto
assìdere,
ho
voluto
guardarmi
intorno
e
guardare
negli
occhi
di
queste
ragazzine
romantiche
che
palpitano
davanti
alle
mie
fotografie.
Stabilire
un
contatto
che
riveli
a
tutti
gli
ammiratori
della
mia
voce
che
dietro
questa
voce
c'è
una
persona
che
ama,
soffre
e
lotta.
[...]
Claudio
Villa
non
intende
lasciare
i
suoi
ammiratori come miseri mortali in adorazione del divo prediletto
”.
1975:
La
FGCI
di
Roma
organizza
presso
il
Palazzo
dello
Sport
una
festa
per
il
XXX
della
Liberazione.
Ci
sono
molti
musicisti
e
attori
“organici”
come
quelli
del
Nuovo
Canzoniere
Italiano
(Ivan
Della
Mea,
Giovanna
Marini,
Paolo
Pietrangeli,
Paolo
Ciarchi),
gli
Inti
Illimani,
Maria
Carta,
Giorgio
Gaslini,
Mario
Schiano,
Gian
Maria
Volonté,
Luigi
Proietti
e
naturalmente
Luigi
Nono,
fresco
di
nomina
al
Comitato
centrale
del
PCI.
L’evento
viene
documentato
in
modo
accurato
da
Luigi
Perelli
nel
film
Musica
per
la
libertà
(
Unitelefilm,
1975;
disponibile
sul
canale
YT
dell’Archivio
Audiovisivo
del
Movimento Operaio e Democratico).
Un
mondo
militante
e
una
varietà
musicale
si
incontrano
in
un
interessantissimo
melting
pot
che
affianca
canzoni
di
lotta,
free
jazz
e
musica
d’avanguardia;
per
quanto
a
farla
da
padrona,
sotto
il
profilo
emozionale,
sono
soprattutto
i
gruppi
esuli
cileni,
Inti
Illimani
in
testa,
in
virtù
ovviamente
del
recente
colpo
di
Stato
di
Pinochet,
avvenuto
un
anno
e mezzo prima.
Questo
il
ricordo
di
Della
Mea:
“
Va
Pietrangeli
con
la
Contessa
,
va
la
Marini
coi
Treni
per
Reggio
Calabria,
vado
io
con
la
Cara
moglie
.
Pugni
alzati,
cori
alla
grande.
Applausi
a
scroscio
”
(Ivan
Della
Mea,
«il
manifesto»,
31/05/2008).
Insomma
una
grande
celebrazione
musicale
e
politica,
tipica
di quegli anni…
Poi
arriva
il
momento
di
Luigi
Nono
che
offre
l’ascolto
del
suo
Canto
sospeso
per
solisti,
coro
misto
e
orchestra
(in
questo
caso
però
da
una
registrazione
su
nastro
magnetico).
Il
brano
del
1955-56,
basato
sulle
Lettere
di
condannati
a
morte
della
Resistenza
europe
a
(Einaudi,
1954),
viene
scelto
al
posto
del
più
recente
Für
Paul
Dessau
(1974)
il
cui
nastro
non
è
disponibile
(il
perché
lo
spiega
lo
stesso
Nono
nel
film).
Il
canto
sospeso
è
una
composizione
militante,
pregna
di
contenuti
civili
che
sfuggono
a
ogni
possibile
retorica
di
parte,
ma
probabilmente
è
molto
meno
intellegibile
nei
suoi
contenuti
civili
rispetto
alla
composizione
scritta
per
Dessau,
forte
del
campionamento
delle
voci
di
Che
Guevara,
Fidel
Castro,
Lumumba
e
Lenin,
che
forse
avrebbero
suscitato
un
altro
tipo
di
reazione
da
parte
dei
giovani
della FGCI.
E
invece
alcuni
di
costoro,
di
fronte
a
una
musica
che
arriva
alle
loro
orecchie
improvvisamente
distante,
fredda,
concettuale
e
soprattutto
non
adeguata
al
veemente
spirito
di
lotta
appena
riscaldato
dai
canti
collettivi,
iniziano quasi subito a fischiare Nono. E in modo impietoso.
Così
Della
Mea:
“
Poi,
Nono.
Una
cosa
sua
registrata,
con
lui
che
armeggia
a
vista
intorno
a
magnetofoni:
suoni
strani,
altri,
difficili
da
capire.
Silenzio
del
pubblico.
Poi,
un
fischio.
Due
fischi.
Una
selva
di
fischi.
Nono
imperterrito prosegue. Il Palazzo è tutto un fischio
”.
A
questo
punto
il
compositore
prende
il
microfono
e
improvvisa
un
discorso
memorabile che ribalta completamente la situazione:
“
Compagni,
c'è
un
fatto
culturale
e
politico
di
grande
importanza:
mi
rendo
conto
del
perché
dei
fischi
e
mi
rendo
conto
anche
di
una
certa
difficoltà.
Ma
noi
comunisti
dobbiamo
essere
convinti
e
coscienti
che
dobbiamo
usare
tutti
i
mezzi
a
disposizione
della
cultura...
Dobbiamo
usare
tutti
i
mezzi,
non
solo
le
chitarre...
Dalle
chitarre,
dai
canti
politici,
alla
musica
elettronica,
alla
musica
strumentale.
E
non
abbandonarci
a
facili
trionfalismi,
né
ai
semplicismi
politici
dei
testi.
La
cultura
comunista
è
un
fatto
serio,
è
un
fatto
che
impegna
–
come
dice
Gramsci
–
la
grande
intelligenza.
Può
essere
difficile,
ma
ricordatevi
che
abbiamo
bisogno
di
tutta
l’intelligenza
nostra
e
di
tutti
i
mezzi
a
nostra
disposizione
se
vogliamo
realizzare
l'egemonia
culturale
della
classe
operaia”
[la
trascrizione dal film di Perelli è nostra,
NdA
].
Il
palasport
esplode
in
un
tripudio
di
applausi.
Il
consenso
perso
durante
l’ascolto, è guadagnato sul piano dialettico. Cosa è successo quindi?
Come
avrebbe
certamente
detto
Luigi
Pestalozza,
la
situazione
si
è
ribaltata
perché
il
pubblico
è
stato
“formato”,
ovvero
ha
appreso
che
dietro
quei
suoni
c’è
un
pensiero
che
esige
rispetto,
al
pari
del
rispetto
che
esige
ogni
lavoro
dell’uomo.
Ed
è
proprio
questo
l’approccio
attraverso
il
quale
si
muovono
in
quel
periodo
iniziative
analoghe,
che
portano
la
musica
contemporanea
nelle
fabbriche.
Il
desiderio
è
quello
di
coinvolgere
gli
operai
attraverso
spiegazioni
ideologiche
atte
a
consentire
la
fruizione
di
suoni
complessi
e
di
non
facile
assimilazione,
seppur
densi
di
significati.
Il
portato
dello
sforzo
culturale
è
storico,
anche
se
gli
esiti
non
sono
sempre
felici.
All’interno
del
Palazzo
dello
Sport
il
pubblico
della
FGCI
si
divide
tra
chi
apprezza
lo
“stile
popolare
e
verace”
dei
canti
con
la
chitarra
(il
punto
di
vista
pasoliniano)
e
chi
invece
si
sforza
di
capire
e
di
apprezzare
anche
la
musica d’avanguardia di Nono.
Cosa
mette
in
comune
allora
questi
due
episodi
così
esteticamente
distanti,
come
la
conferenza
stampa
di
Claudio
Villa
e
il
comizio
improvvisato
di
Luigi
Nono,
al
di
là
dell’oggettivo
impegno
di
entrambi
nel
Partito?
Ebbene,
questi
eventi
ci
parlano
di
due
artisti
militanti
colti
nell’atto
di
mettere
in
pratica
il
concetto
gramsciano
di
“egemonia
culturale”,
un
passo
fondamentale
della
lotta
politica.
Riprendendo
finalmente
Antonio
Gramsci,
possiamo
riferire
le
sue
osservazioni
sulla
lingua
per
ricondurle
alla
musica,
proprio
perché
questa
è
stata
uno
dei
media
più
potenti
fin
dai
tempi
della
Rivoluzione francese:
“
Ogni
volta
che
affiora,
in
un
modo
o
nell’altro,
la
questione
della
lingua,
significa
che
si
sta
imponendo
una
serie
di
altri
problemi:
la
formazione
e
l’allargamento
della
classe
dirigente,
la
necessità
di
stabilire
rapporti
più
intimi
e
sicuri
tra
i
gruppi
dirigenti
e
la
massa
popolare-nazionale,
cioè
di
riorganizzare
l’egemonia
culturale
”.
(
Quaderno
29,
Note
per
una
introduzione allo studio della grammatica
, 1935).
A
modo
loro
sia
Villa
che
Nono
“formano”
il
loro
pubblico.
Il
primo,
stabilendo
“
un
contatto
che
riveli
a
tutti
gli
ammiratori
[…]
che
dietro
questa
voce
c'è
una
persona
che
ama,
soffre
e
lotta
”
e
così
facendo,
eliminando
ogni
tratto
divistico
legato
alla
popolarità,
rifiutando
cioè
quel
cliché
tipico
della
cultura
pop
nella
quale
i
fan
vengono
considerati
dei
“
miseri
mortali
in
adorazione
del
divo
prediletto
”.
Se
qualcuno
deve
imparare
a
stabilire
dei
rapporti
intimi
tra
gruppi
dirigenti
e
masse
popolari,
si
rilegga
con
attenzione
queste
parole:
Claudio
Villa
sembra
aver
appreso
molto bene la lezione gramsciana.
E
lo
stesso
dicasi
per
Nono
che
stende
a
braccio,
di
fronte
a
una
platea
“ostile”,
una
vera
e
propria
parafrasi
del
pensiero
gramsciano,
ributtando
in
faccia
a
quella
parte
di
pubblico
acritico
e
ottuso
la
lezione
del
padre
di
tutti
quei
giovani
comunisti,
spinti
troppo
in
là
da
“
facili
trionfalismi
”
e
semplificazioni culturali di comodo.
Con
ogni
probabilità
questo
è
ciò
che
manca
–
e
che
mancherà
ancora
per
lungo
tempo
–
nella
dialettica
politico-culturale
di
questi
anni
2000:
un
partito
capace
di
raccogliere
e
mettere
in
agevole
sintonia
anime
veraci
e
popolari da una parte, anime intellettuali dall’altra.
E
–
aggiungiamo
noi
–
anche
anime
eretiche
come
PPP,
tenuto
sempre
a
dolorosa
distanza
dalle
dirigenze
del
Partito
comunista
italiano,
come
in
una
sorta
di
grave
(e
mal
riposto)
lusso
morale,
o
meglio,
di
mala-
interpretazione
di
quel
concetto
di
egemonia
culturale,
piegata
di
fronte
al
più becero dogmatismo o, peggio, moralismo puritano.
Ma questa, come si dice, è un’altra amara storia comunista…
Michele Coralli.
Milano, 1967.
Giornalista e scrittore,
appassionato di musica
e ambienti naturali,
vive a Milano.
Claudio Villa a un
comizio del PCI,
Roma 1974
Luigi Nono (in primo piano)
mentre partecipa alla
contestazione della Biennale
di Venezia nel giugno 1968
Luigi Perelli
film «Musica per la libertà»
1975 (durata 70 minuti)
Giuseppe Consoli.
1919 Mascalucìa (CT), Milano 2010.
Storico dell'arte e artista siciliano
attivo a Milano dal 1959,
a lungo iscritto al PCI.
consoli:
un protagonista
dell’impegno
politico e poetico
della pittura
Nel
1945,
tornato
in
Italia
dopo
due
anni
di
prigionia
nei
lager
nazisti
in
Germania,
non
ha
mai
smesso
di
esprimere
in
arte
la
sua
personale
denuncia
sociale,
come
forma di lotta e resistenza.
Per
molti
anni
tesserato
del
PCI,
nel
1951
vinse
il
Premio
Suzzara
con
il
quadro
“Strage
di
Portella
della
Ginestra”,
oggi
nella Raccolta CGIL a Roma.
Nel
1952,
insieme
a
Guttuso,
si
impegnò
sul
piano
della
sindacalizzazione
degli
artisti.
L'attenzione
alla
cronaca
e
alle
tematiche
sociali
e
del
lavoro
è
sempre
stata
molto
presente
nella
sua
pittura,
specie
quando
le
strade
d'Italia
furono
insanguinate
dagli
scontri politici negli 'anni di piombo'.
Notevole
la
sua
presenza
e
la
sua
generosità
nel
contribuire
e
partecipare
con
il
suo
lavoro
all’allestimento
di
moltissimi
Festival
dell’Unità
milanesi
e
non solo.
Giuseppe Consoli,
Strage di Portella della Ginestra.
olio su tela, 120x300cm, 1951
Giuseppe Consoli,
pannello all’ingresso della
Festa dell'Unità zonale
di corso XXII Marzo del 1975,
in Largo Marinai d'Italia
a Milano.
UNA VITA
PER L’IMMAGINE…
Tra
impegno
civile,
amore
per
la
poesia
e
per
la
pittura,
Luigi
Biffi
è
stato
uno
dei
protagonisti
della
stagione
figurativa
milanese
del
secondo
dopoguerra.
La
sua
è
stata
una
poetica
sostanzialmente
urbana,
dai
tratti
fantastici
e
trasognati,
espressionisticamente
visionaria
ma
anche
sempre
fervida di realtà dimesse, di “normalità” spiazzanti, di pudiche tenerezze.
Luigi BIFFI.
Milano 1928 - Milano 1994.
Pittore, disegnatore e incisore
ha allestito numerose personali in Italia
ed ha partecipato a importanti rassegne
di tendenza. Famoso per la sua
produzione grafica spesso dedicata a
temi storici legati a Milano.
Luigi Biffi,
Uomini nuovi per nuove
bandiere.
Olio su tela,
80x100 cm, 1974.