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ADELIO FUSE’. Gorla Maggiore, 1958. Scrittore e poeta vive a Milano.
Un racconto dal passato Messaggio per un secolo di Adelio Fusé 1. Quante volte ho cercato il volto di mio padre nelle foto di quei giorni livornesi, mentre la comunità socialista si divideva. Suvvia, già due erano le parti: i riformisti "tiratardi", così li chiamava mio padre, e loro, i rivoluzionari cui la terra bruciava sotto i piedi. Accomodante in famiglia e con gli amici, era invece intransigente e impaziente con i propri obiettivi massimi. Gli ideali, diceva, non aspettano. E lui trovava imperdonabile farli aspettare. Sono lì, immobili come la Stella polare, gli ideali, ma pretendono una navigazione veloce. Voleva mosse rapide, mio padre, e accelerava. "Se il tempo aveva mani," mi raccontava mia madre, "lui se le sentiva strette intorno al collo, e per non soffocare, agiva." Le foto lui le aveva ritagliate dai giornali dell'epoca, e mia madre prima, io e miei fratelli poi, nei decenni le abbiamo sempre trattate con la cura che meritavano. Il suo volto serio che ricaccia dentro la dolcezza lo trovavo facilmente in altre foto. Una volta cresciuta e in grado di capire, mi è sempre parso di scorgere nel suo sguardo il riflesso dei valori per cui lui combatteva. Perché allora ho sempre avvertito il bisogno di scovarlo là, il suo volto, nella folla dei compagni, compresi i "tiratardi"? La domanda è retorica. Si agisce in proprio, ma il contributo personale perde senso se non sfocia in un'unica grande azione collettiva. Questo era mio padre. Livorno, 21 gennaio 1921: al teatro San Marco nasceva il Partito comunista d'Italia. Quel giorno sono venuta al mondo anch'io, sulla stessa costa ma più nord, ad Ameglia, in una casa fra gli ulivi. Per lui io fui una sorpresa. La levatrice gli aveva assicurato che il parto non ci sarebbe stato e anche mia madre lo aveva convinto che rimaneva un buon margine, ma solo per rincuorarlo, lei sentiva che non mancava molto. E io, nei momenti tristi della mia vita, eccomi sempre a scandagliare con una lente quelle foto in cerca del suo volto fra i volti dei compagni e delle compagne. Perché c'erano anche le compagne, sapete? Andava fiero del cognome che portava: Giusti. Una bella tradizione da perpetuare. Un fratello di mio padre e il mio nonno paterno erano simpatizzanti socialisti, e per un po', dopo la scissione, si guardarono di traverso. "Stai sbagliando e state sbagliando. Siamo più deboli noi e sarete deboli voi", lo provocavano. Mio padre insisteva per portarli dalla propria parte: "Se vi sentite deboli, non avete che da venire con noi. Noi siamo già una forza!". Ma non smisero mai di volersi bene, e poi alcuni nemici erano in comune, gente pronta a ripararsi sotto lo stesso sciagurato ombrello, quello di Mussolini. Io, la prima di tre figli, divenni Letizia: il sogno che si fa realtà al di della vita dura. A chiamarmi così fu mia madre, mio padre si limitò ad acconsentire. Intanto era entrato nel mirino delle squadracce in camicia nera, poteva essere altrimenti: guardato a vista, sotto minaccia e, in crescendo, battuto a sangue ("mi hanno torchiato come le nostre olive"). Non si dava pace: era stata fra le peggiori umiliazioni farsi mettere sotto così da "quelli". Lo consideravano un pericolo, e in questo non avevano torto: uno capace di trasferire gli effetti di una mareggiate dalla costa fino in cima alle montagne. Propagandava e sobillava. "Qui io finisco sotto il torchio ma non le nostre olive", disse, quando iniziò a passare le notti a sorvegliare l'oliveto, dopo che avevano tentato di appiccare un incendio. Poi, a raccolta avvenuta, gli fu impedito l'accesso al torchio. Lasciare la famiglia per la Francia per lui fu una sconfitta. Era nato intanto mio fratello Armando, Enrico, il più piccolo, sarebbe giunto più tardi; mia madre, che aveva da poco scoperto la nuova gravidanza, non disse niente a mio padre, era necessario che lui partisse, per salvare stesso e per salvare noi. Mia madre lo aveva sempre appoggiato, la fede era la stessa, ma, d'accordo con lui, stava coperta e attenta, nemmeno una parola con chicchessia sulla vita politica. La notte che mio padre salpò, la mareggiata era di altra specie, e tutta interiore. Dalla Francia scrisse lunghe lettere, un poco sgrammaticate, ma che importava? Le consegnavano a mia madre dopo averle aperte e richiuse male, per far capire che non passavano inosservate. Le ho ancora con me, nella stessa casa dove sono nata, in fondo rimasta uguale e cambiata solo per tamponare gli inevitabili cedimenti. Lì, prima del mio definitivo ritiro dalla vita pubblica, sempre tornavo a ritemprarmi o leccarmi le ferite per le battaglie perse. E l'oliveto, solo poche terrazze, non è mai andato in malora, anche se non per merito mio ma per il lavoro di altri a cui lo avevo affidato. E ancora produce. Poi smise di scrivere, o comunque mia madre smise di ricevere le sue lettere. L'ultima dalla Francia non portava la sua firma ma quella di un compagno addolorato: un sicario aveva freddato mio padre qualche giorno dopo il congresso del Partito a Lione, nel 1926. Era un pesce piccolo, ma diventava sempre più grosso e gli fecero l'onore di prenderlo nella rete. 2. E questo, invece, è un manifesto celebrativo. Il Sole spunta sopra l'orizzonte e sale, per ora è un mezzo cerchio. I raggi sono simili a frecce conficcate? Sono le sofferenze patite ma nello stesso tempo un annuncio. E` l'aurora, si va verso l'avvenire. Il nome del Partito, inciso nel semicerchio, ne segue il profilo: coincide dunque con il Sole e la fede in ciò che verrà e sarà. Sotto, campeggia l'anno della fondazione 1921 –, ponte fra il nome e la falce e il martello, da cui spuntano, come due ali, le spighe. Da un promontorio due uomini osservano e salutano. Ci dovrebbe essere sempre un avvenire da salutare. Uno dei due è di spalle, mostra appena il volto, sembra giovane. Nella mano sinistra impugna un badile, nella mano destra, regge il berretto, il braccio sollevato interseca quello dell'amico e compagno. Un incrocio speculare alla falce e al martello. Ma sono forse, chissà, l'uno il figlio, l'altro il padre. Il secondo uomo si mostra di profilo, anch'egli con la mano sinistra posata sul manico del badile, lo si percepisce più anziano e più provato del primo, che emana invece una controllata fierezza: una staffetta di generazioni, nell'insieme sobria, e con il decoro e la dignità di chi non ostenta. O non ha bisogno di vuote esibizioni, perché gli intenti di una fede parlano comunque con voce chiara. C'è del misticismo? Come in ogni fede. Ma loro hanno piedi ben piantati nel suolo. Non dimenticano certo la terra, loro, frequentano la fatica. Il disegno è in bianco e nero ma i colori si possono pur sempre aggiungere. No, non nel disegno! Nella realtà! I colori smaglianti e luminosi degli ideali, anzitutto. Quanti sono? La tavolozza è ricca ma convergono in uno. Il rosso della passione civile, quello del sangue versato. Io non ne ho versato: sono ancora qui, in una porzione del pianeta Terra, ma non sono sola, sono parte di una Storia. Penso ai molti che hanno perso la vita cedendola a un ideale e tanto basta per averli con me. Siamo insieme: loro e io, io e loro. E fra loro e voi, nella mia parte di sopravvissuta, ho i doveri di una intermediaria. I due uomini sono i protagonisti di una storia finita e tradita? Gli eredi. Bisogna chiedere agli eredi. Che ne hanno fatto e cosa ne faranno del lascito. Voci contrarie sentenziano che i due compagni sul promontorio, visti con gli occhi di oggi, non inviano un saluto all'alba e a una nascita ma al tramonto e a una morte. Il loro gesto di saluto sarebbe allora un congedo. Un addio. Qui, intanto, si celebra un'alba. Preferite credere che sia ormai un tramonto? L'alba e il tramonto non sono solamente gli estremi del giorno: i colori dell'alba possono richiamare il tramonto e quelli del tramonto l'alba. Ma la speranza trova posto nell'alba: nel tramonto non la troverete. "Domani mattina si va a vedere l'alba al Poggio e serve un badile", ho detto a Consuelo. Vive con me da anni e mai l'ho vista mescolare in quel modo stupore e spavento. Ha sporto gli occhi scuri sopra la mascherina, come se le dovessero rotolare via. Il luccichio solito che hanno dentro si era spento: il mio anziano cervello aveva forse mandato un repentino e temuto segnale di crollo e lei ne era rimasta impressionata? E` stagione fredda, questa, e all'alba poi! E il badile! E forse avrei persino proposto di raggiungere il Poggio andando su camminando. Ma no, Consuelo, al Poggio mi ci porti con l'auto. Non ci sarà la grande festa prevista per i miei cent'anni, quella che mio figlio e i miei nipoti e bisnipoti avevano pianificato con largo anticipo, prima che il virus diventasse il padrone. Abbiamo mantenuto i contatti, non mi hanno certo abbandonata. E altri si sono fatti vivi nelle maniere più varie e fantasiose. Sono fioccate le interviste a distanza, una donna centenaria fa notizia. Vogliono la militante e la partigiana, la figlia di Lorenzo Giusti, attiva nella Resistenza con i due fratelli e sua madre, la famiglia al completo; vogliono la femminista, la deputata, persino la pittrice e la scultrice che sono diventata nella vecchiaia, finché le mani me lo hanno permesso. Vogliono poi la mia vita privata, giù fino ai miei amori. I miei viaggi, le città dove ho abitato, la casa natale dove infine ho riaffondato le miei radici, del resto mai recise. Spalanco la mia memoria, che non balla inaffidabile, e la metto a disposizione. Rispondo alle domande e la mano, stretta intorno al cellulare, trema, e la voce a volte si abbassa e l'udito, benché aiutato dall'apparecchio acustico, fa i capricci. Ma i ricordi, no, quelli ci sono tutti nella loro grande girandola: il segreto è lasciarli liberi. E non contengono, badate, cimeli impolverati. Se della polvere c'è, sta a voi toglierla e renderli ancora utili, perché non sono pezzi della mia storia soltanto, io non sono che una voce dentro a un coro, e quello che serve ascoltare è proprio il coro. Arriviamo al Poggio con la prima luce che si sta formando. Si fa presto a intuire che l'alba sarà radiosa, come una promessa mantenuta. La luce crescerà e ci saranno i colori attesi. L'aria è fredda e punge, sì, ma la respiro a polmoni pieni, "e questo, Consuelo, non è il mio ultimo sospiro, non ancora". Abbassata la mascherina, sento l'aria infilarsi spedita in ogni mia ruga, e diventare poi acqua che si incanala. Ho il viso solcato da tanti ruscelletti. "Respira, Consuelo, respira questa meraviglia." E poi, ecco, scivolano le lacrime, assaporo il momento, lei non se ne accorge o finge. Quando mi aiuta ad alzarmi dalla sedia a rotelle, ho di nuovo il viso per metà nascosto dalla mascherina ma gli occhi devono essere ancora arrossati. Consuelo non ha la presa salda che le conosco, qualcosa la turba, ma io desidero rimanere in piedi almeno un poco, anzi il tempo che sarà necessario. "Sta per arrivare tuo figlio", mi ricorda seria, come per trattenermi. Giustifico la sua preoccupazione: non posso offrirmi a lungo a questo freddo. "Non a quest'ora. Lorenzo verrà più tardi", le dico. Mio figlio porta il nome di mio padre. Lei ha fretta di portarmi via, si sente responsabile. E forse anch'io dovrei essere responsabile con lei. "Consuelo, respira," le dico ancora. Non sarà la patetica cerimonia di una donna centenaria con la mente ormai in panne. Comunque non posso costringere Consuelo a prendervi parte: non comprende il mio gesto, le ho descritto quello che sta per succedere. Se la forzassi nella parte della comparsa, sì, cadrei nel pietoso, sarei persino volgare. Lei è qui, alle mie spalle, pronta a sorreggermi, io per prima mi credevo più malferma di quanto non sia; il manico del badile è il mio bastone. Non avertene a male, Consuelo, questa volta posso fare da me. Il Sole si affaccia e sale, e io sono pronta ad accoglierlo, una mano sul manico del badile, l'altra che stringe il mio berretto di lana sollevato nell'aria. Il braccio è teso e ne incrocia un altro: mio padre è qui, accanto a me. Una figura d'aria che ne include innumerevoli altre: mia madre, i miei fratelli, altre famiglie e gruppi; le compagne e i compagni che hanno fatto con me la mia vita o l'hanno attraversata solo per poco ma lasciando un segno; chi avrei potuto conoscere e non ho mai incontrato; chi è entrato nei libri e ora è dimenticato; e chi non ha mai avuto il privilegio di una riga. Questa catena umana, che spezza qualunque altra catena, la vedo nel Sole, dove si specchia.
Esterno del teatro Goldoni a Livorno, dove, nei giorni 15-21 gennaio 1921, si tenne il XVII congresso del Partito socialista italiano, dal quale il 21 uscì il gruppo dei comunisti per dare vita al nuovo partito. Interno del teatro San Marco a Livorno, 21 gennaio 1921. Manifesto che celebra la fondazione del Partito comunista italiano.
LA POLITICA E LA PITTURA… di Marco Seveso Questa pagina è tratta da un vecchio diario di mio fratello Marco, pittore scomparso tre anni fa. Se una malattia bastarda e fulminea non l’avesse portato via so per certo che sarebbe stato anche lui tra i promotori di questa nostra iniziativa… Per questo mi sono deciso a pubblicarlo qui, insieme ad una sua immagine di argomento «politico». (G.S.) Sono assalito da dubbi circa il mio pensiero sulla cultura e sulla politica. Dubbi che investono anche la mia azione di pittore. Cosa dipingere? Verrebbe facile dire: l’uomo e il suo ambiente. Dipingere bene ha ancora senso! Peccato che il pittore non goda oggi di alcuna considerazione: le opere non interessano, il pittore è un soprammobile per i ricchi, un mito per la classe media. Può essere però un bene: i pittori bravi oggi provengono dalle classi povere. Ma a chi parlano i pittori? Nessuno li sente. Finché giungeranno a gridare così forte che tutti ne avranno i timpani rotti. Così è il pittore. «A forza di fatica il bruco diventa la ricca farfalla.» (Apollinaire) (14/02/1968)
Marco Seveso. Sanremo 1945 - Torino 2018. Pittore, è stato a lungo iscritto al PCI, per il quale è stato anche Consigliere alla Provincia di Torino.
Marco Seveso, Cosa rimiri mio bel partigiano, 60x50cm, olio su tela, 2010
Marco Seveso, Cosa rimiri mio bel partigiano, 60x50cm, olio su tela, 2010
CONTRO LA GUERRA IN VIETNAM… Ecco un artista francese, purtroppo prematuramente scomparso diversi anni fa, di grande talento e forte personalità. Ha lasciato nel nostro Paese tracce robuste di una figurazione inimitabile e profonda. L’opera qui riprodotta, tra le sue rare di impegno esplicitamente politico, era stata realizzata per una collettiva sul tema della guerra del Vietnam a una Festa de l'Unità provinciale di Savona nel 1966. Attualmente fa parte della savonese collezione della “Fondazione Cento Fiori”.
DANIEL BEC. Cannes (Francia) 1940 - Genova 2008. Pittore, disegnatore e incisore formatosi tra Nizza e Parigi, dal 1964 ha vissuto in Italia ad Albisola e successivamente a Genova.
Daniel Bec,VietNam,acrilico su cartoncino, 101x64cm, 1966
Daniel Bec, VietNam, acrilico su cartoncino, 101x64cm, 1966
SE IL CORAGGIO DEI FIGLI… da Ipotesi di felicità (Mondadori 2017) di Alberto Pellegatta Non sei neanche più la sciatta che mendica nell’angolo più sporco, truccata pesante offri labbra repellenti. Nei tuoi orti non cresce neanche l’ortica. A cosa è servito compilare saggi e versi se poi si arriva a questo? Se il coraggio dei figli è la paura dei padri e la maggioranza soffoca l’Italia intera.
Alberto Pellegatta. Milano, 1978. Poeta e critico d’arte vive a Milano.
Un racconto breve… L’INCARICO di Sauro Largiuni «Da tempo aveva lasciato il lavoro per la prolungata esposizione alle polveri e ai fumi tossici della fabbrica. Ormai aspettava solo il manifestarsi della malattia di cui gli erano purtroppo noti i segni osservati già in diversi compagni di lavoro morti negli anni. Si era quindi stupito quando la nuova dirigenza del vecchio stabilimento lo aveva convocato affidandogli a compenso del riconoscimento dei requisiti indispensabili alla pensione anticipata l’incarico di compiere la ricognizione accurata di ogni reparto da demolire. All’inizio la lunga pratica di lavoro e la perfetta conoscenza della fabbrica gli erano sembrate trappole da evitare ad ogni costo. Aveva quindi indugiato prima di accettare, poi però il timore di perdere i soldi del “rischio malattia” ed anche la possibilità di tornare l’ultima volta dove aveva speso gran parte della sua vita lo avevano convinto ad acconsentire. Una decisione a cui si era fra l’altro accompagnata la sensazione di avere una parte nel destino di un luogo tanto importante per il suo. In realtà fin dal primo sopralluogo egli restava attonito e sgomento di fronte a come e quanto il tempo e l’incuria avessero sconvolto lo stabilimento rendendo quasi irriconoscibili i suoi reparti. Nulla pareva essersi salvato. Nemmeno quel poco che, rintoccando tra i finestroni rotti o sbattendo fra le brecce dei capannoni sfondati, pareva scuotersi soltanto per celebrare con quei lugubri intermittenti saluti la caduta finale o aspettare l’estrema e violenta ventata che, volandolo via facilmente, avrebbe posto compassionevolmente fine alla sua interminabile agonia. Una sterminata desolazione che non avrebbe potuto opporre alcuna resistenza alle macchine attrezzate e alle squadre specializzate nelle operazioni di abbattimento e bonifica dell’opificio dismesso. Tuttavia l’incaricato, non volendo venir meno al compito ricevuto, seguitava per giorni le sue meticolose ricognizioni finché una notte piovosa non giungeva davanti ad un alto muro scortecciato. Una possente barriera di confine oltre la quale c’era un’altra fabbrica dove fervevano diuturne attività e cresceva di continuo la produzione grazie, si diceva, alla manodopera irregolare degli schiavi (così chiamati dai più) che lavoravano sempre e non si lamentavano mai. Sulla balza del muro s’apriva una larga crepa che, restringendosi a poco a poco, risaliva la parete striata di muschio e solcata dai rivoli di pioggia che al suolo erano inghiottiti dentro una botola dal cui coperchio, lentamente schiuso, sbucava uno che scivolando nel fango si avvicinava alla fessura dove impaziente accostava gli occhi. «Ciò che riesco a vedere,» diceva senza staccarsi dall’incrinatura e volgendo le spalle all’incaricato «mi basta ad aspettare che questa spaccatura si allarghi…» allungando le mani sui labbri della crepa come a volerla dilatare «per andare di dove, confondendomi con gli schiavi,» lasciando ricadere le dita e voltandosi di colpo «potrei ancora lavorare.» mostrando le piaghe delle mani e gli sfregi sul viso che la pioggia sembrava pietosamente lenire e lavare. Nella notte la pioggia era smessa. L’incaricato era rimasto ad ascoltare fino a bruzzico l’altro che, ubbidendo a un invisibile quanto implacabile segnale di minaccia nascosto tra gli albori, riapriva il coperchio e spariva nella botola lasciandolo nella più gravosa incertezza. Se infatti, nei giorni seguenti, avesse messo al corrente lo scomparso delle intenzioni della committenza questi si sarebbe perso certamente d’animo rinunciando alla speranza di allargamento dell’incrinatura e quindi rassegnandosi alla sua tragica sorte. Se invece avesse avvisato, com’era suo dovere, la direzione di quella importuna presenza essa avrebbe sicuramente accelerato, se non anticipato, le operazioni di smantellamento dell’opificio. Alla fine l’incaricato decideva di non dire nulla ad alcuno. E quando le macerie degli abbattimenti s’accatastavano al muro di confine nessuno poteva sapere se avessero chiuso la crepa dopo che si era tanto allargata da poterla varcare oppure l’avessero sigillata prima che le macchine completassero le operazioni di bonifica della nuova area edificabile.» Questo racconto breve, tratto dalla raccolta in corso «Sverze», è dedicato in particolare ai lavoratori della ferriera della mia città natale e più in generale ai pochi che sanno ancora lavorare e ai troppi che il lavoro non hanno più.
SAURO LARGIUNI. Scrittore, è nato a San Giovanni Valdarno (AR) nel 1953.
Ambiente musicale Alla ricerca dell’egemonia culturale perduta: da Claudio Villa a Luigi Nono di Michele Coralli 1957: Un giovane e già carismatico Claudio Villa vince il Festival di Sanremo con la canzone Corde della mia chitarra . Questo avviene nonostante una celebre stecca che fornisce alla stampa il pretesto per attaccare il personaggio, anche a causa di una certa boria e di una esibita sicumera vocale espressa attraverso fioriture e virtuosismi che incontrano sempre i gusti del grande pubblico. Nonostante la stonatura, Villa vince ma, come da tradizione, la stecca porta con un seguito di polemiche, cavalcate ad arte dal settimanale «TV Sorrisi e Canzoni», il quale indice addirittura un referendum tra i favorevoli e i contrari al “reuccio”, a breve distanza, tra l’altro, dalla discesa in campo di un onorevole missino che muove niente meno che un’interrogazione al ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni! Per non far mancare punti di vista autorevoli, sul giornale è chiamato a intervenire anche Pier Paolo Pasolini, che in maniera molto asciutta commenta: Mi piace il repertorio delle canzoni melodiche di Claudio Villa, perché mi piace il pubblico che ama questo stile popolare e verace (mutatis mutandis, un pensiero affatto dissimile da quanto poi espresso in poesie come Transumanar e organizzar , 1971). A dirla tutta, però, Claudio Villa è perfettamente in grado di difendersi da solo, da par suo, ovvero in modo orgoglioso e antipatico a molti: Giunto alle più alte sfere della popolarità, ho provato a piegarmi dall'alto del piedistallo su cui mi hanno fatto assìdere, ho voluto guardarmi intorno e guardare negli occhi di queste ragazzine romantiche che palpitano davanti alle mie fotografie. Stabilire un contatto che riveli a tutti gli ammiratori della mia voce che dietro questa voce c'è una persona che ama, soffre e lotta. [...] Claudio Villa non intende lasciare i suoi ammiratori come miseri mortali in adorazione del divo prediletto ”. 1975: La FGCI di Roma organizza presso il Palazzo dello Sport una festa per il XXX della Liberazione. Ci sono molti musicisti e attori “organici” come quelli del Nuovo Canzoniere Italiano (Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Paolo Ciarchi), gli Inti Illimani, Maria Carta, Giorgio Gaslini, Mario Schiano, Gian Maria Volonté, Luigi Proietti e naturalmente Luigi Nono, fresco di nomina al Comitato centrale del PCI. L’evento viene documentato in modo accurato da Luigi Perelli nel film Musica per la libertà ( Unitelefilm, 1975; disponibile sul canale YT dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico). Un mondo militante e una varietà musicale si incontrano in un interessantissimo melting pot che affianca canzoni di lotta, free jazz e musica d’avanguardia; per quanto a farla da padrona, sotto il profilo emozionale, sono soprattutto i gruppi esuli cileni, Inti Illimani in testa, in virtù ovviamente del recente colpo di Stato di Pinochet, avvenuto un anno e mezzo prima. Questo il ricordo di Della Mea: Va Pietrangeli con la Contessa , va la Marini coi Treni per Reggio Calabria, vado io con la Cara moglie . Pugni alzati, cori alla grande. Applausi a scroscio (Ivan Della Mea, «il manifesto», 31/05/2008). Insomma una grande celebrazione musicale e politica, tipica di quegli anni… Poi arriva il momento di Luigi Nono che offre l’ascolto del suo Canto sospeso per solisti, coro misto e orchestra (in questo caso però da una registrazione su nastro magnetico). Il brano del 1955-56, basato sulle Lettere di condannati a morte della Resistenza europe a (Einaudi, 1954), viene scelto al posto del più recente Für Paul Dessau (1974) il cui nastro non è disponibile (il perché lo spiega lo stesso Nono nel film). Il canto sospeso è una composizione militante, pregna di contenuti civili che sfuggono a ogni possibile retorica di parte, ma probabilmente è molto meno intellegibile nei suoi contenuti civili rispetto alla composizione scritta per Dessau, forte del campionamento delle voci di Che Guevara, Fidel Castro, Lumumba e Lenin, che forse avrebbero suscitato un altro tipo di reazione da parte dei giovani della FGCI. E invece alcuni di costoro, di fronte a una musica che arriva alle loro orecchie improvvisamente distante, fredda, concettuale e soprattutto non adeguata al veemente spirito di lotta appena riscaldato dai canti collettivi, iniziano quasi subito a fischiare Nono. E in modo impietoso. Così Della Mea: Poi, Nono. Una cosa sua registrata, con lui che armeggia a vista intorno a magnetofoni: suoni strani, altri, difficili da capire. Silenzio del pubblico. Poi, un fischio. Due fischi. Una selva di fischi. Nono imperterrito prosegue. Il Palazzo è tutto un fischio ”. A questo punto il compositore prende il microfono e improvvisa un discorso memorabile che ribalta completamente la situazione: Compagni, c'è un fatto culturale e politico di grande importanza: mi rendo conto del perché dei fischi e mi rendo conto anche di una certa difficoltà. Ma noi comunisti dobbiamo essere convinti e coscienti che dobbiamo usare tutti i mezzi a disposizione della cultura... Dobbiamo usare tutti i mezzi, non solo le chitarre... Dalle chitarre, dai canti politici, alla musica elettronica, alla musica strumentale. E non abbandonarci a facili trionfalismi, ai semplicismi politici dei testi. La cultura comunista è un fatto serio, è un fatto che impegna come dice Gramsci la grande intelligenza. Può essere difficile, ma ricordatevi che abbiamo bisogno di tutta l’intelligenza nostra e di tutti i mezzi a nostra disposizione se vogliamo realizzare l'egemonia culturale della classe operaia” [la trascrizione dal film di Perelli è nostra, NdA ]. Il palasport esplode in un tripudio di applausi. Il consenso perso durante l’ascolto, è guadagnato sul piano dialettico. Cosa è successo quindi? Come avrebbe certamente detto Luigi Pestalozza, la situazione si è ribaltata perché il pubblico è stato “formato”, ovvero ha appreso che dietro quei suoni c’è un pensiero che esige rispetto, al pari del rispetto che esige ogni lavoro dell’uomo. Ed è proprio questo l’approccio attraverso il quale si muovono in quel periodo iniziative analoghe, che portano la musica contemporanea nelle fabbriche. Il desiderio è quello di coinvolgere gli operai attraverso spiegazioni ideologiche atte a consentire la fruizione di suoni complessi e di non facile assimilazione, seppur densi di significati. Il portato dello sforzo culturale è storico, anche se gli esiti non sono sempre felici. All’interno del Palazzo dello Sport il pubblico della FGCI si divide tra chi apprezza lo “stile popolare e verace” dei canti con la chitarra (il punto di vista pasoliniano) e chi invece si sforza di capire e di apprezzare anche la musica d’avanguardia di Nono. Cosa mette in comune allora questi due episodi così esteticamente distanti, come la conferenza stampa di Claudio Villa e il comizio improvvisato di Luigi Nono, al di dell’oggettivo impegno di entrambi nel Partito? Ebbene, questi eventi ci parlano di due artisti militanti colti nell’atto di mettere in pratica il concetto gramsciano di “egemonia culturale”, un passo fondamentale della lotta politica. Riprendendo finalmente Antonio Gramsci, possiamo riferire le sue osservazioni sulla lingua per ricondurle alla musica, proprio perché questa è stata uno dei media più potenti fin dai tempi della Rivoluzione francese: Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale ”. ( Quaderno 29, Note per una introduzione allo studio della grammatica , 1935). A modo loro sia Villa che Nono “formano” il loro pubblico. Il primo, stabilendo un contatto che riveli a tutti gli ammiratori […] che dietro questa voce c'è una persona che ama, soffre e lotta e così facendo, eliminando ogni tratto divistico legato alla popolarità, rifiutando cioè quel cliché tipico della cultura pop nella quale i fan vengono considerati dei miseri mortali in adorazione del divo prediletto ”. Se qualcuno deve imparare a stabilire dei rapporti intimi tra gruppi dirigenti e masse popolari, si rilegga con attenzione queste parole: Claudio Villa sembra aver appreso molto bene la lezione gramsciana. E lo stesso dicasi per Nono che stende a braccio, di fronte a una platea “ostile”, una vera e propria parafrasi del pensiero gramsciano, ributtando in faccia a quella parte di pubblico acritico e ottuso la lezione del padre di tutti quei giovani comunisti, spinti troppo in da facili trionfalismi e semplificazioni culturali di comodo. Con ogni probabilità questo è ciò che manca e che mancherà ancora per lungo tempo nella dialettica politico-culturale di questi anni 2000: un partito capace di raccogliere e mettere in agevole sintonia anime veraci e popolari da una parte, anime intellettuali dall’altra. E aggiungiamo noi anche anime eretiche come PPP, tenuto sempre a dolorosa distanza dalle dirigenze del Partito comunista italiano, come in una sorta di grave (e mal riposto) lusso morale, o meglio, di mala- interpretazione di quel concetto di egemonia culturale, piegata di fronte al più becero dogmatismo o, peggio, moralismo puritano. Ma questa, come si dice, è un’altra amara storia comunista…
Michele Coralli. Milano, 1967. Giornalista e scrittore, appassionato di musica e ambienti naturali, vive a Milano.
Claudio Villa a un comizio del PCI, Roma 1974
Luigi Nono (in primo piano) mentre partecipa alla contestazione della Biennale di Venezia nel giugno 1968
Claudio Villa a un comizio del PCI, Roma 1974 Luigi Nono (in primo piano)  mentre partecipa alla contestazione della Biennale di Venezia nel giugno 1968
Luigi Perelli film «Musica per la libertà» 1975 (durata 70 minuti)
Giuseppe Consoli. 1919 Mascalucìa (CT), Milano 2010. Storico dell'arte e artista siciliano attivo a Milano dal 1959, a lungo iscritto al PCI.
consoli: un protagonista dell’impegno politico e poetico della pittura Nel 1945, tornato in Italia dopo due anni di prigionia nei lager nazisti in Germania, non ha mai smesso di esprimere in arte la sua personale denuncia sociale, come forma di lotta e resistenza. Per molti anni tesserato del PCI, nel 1951 vinse il Premio Suzzara con il quadro “Strage di Portella della Ginestra”, oggi nella Raccolta CGIL a Roma. Nel 1952, insieme a Guttuso, si impegnò sul piano della sindacalizzazione degli artisti. L'attenzione alla cronaca e alle tematiche sociali e del lavoro è sempre stata molto presente nella sua pittura, specie quando le strade d'Italia furono insanguinate dagli scontri politici negli 'anni di piombo'. Notevole la sua presenza e la sua generosità nel contribuire e partecipare con il suo lavoro all’allestimento di moltissimi Festival dell’Unità milanesi e non solo.
Giuseppe Consoli, Strage di Portella della Ginestra. Olio su tela, 120x300cm, 1951
Giuseppe Consoli, Strage di Portella della Ginestra. olio su tela, 120x300cm, 1951
Giuseppe Consoli, pannello all’ingresso della Festa dell'Unità zonale di Corso XXII Marzo del 1975, in Largo Marinai d'Italia a Milano.
Giuseppe Consoli, pannello all’ingresso della Festa dell'Unità zonale di corso XXII Marzo del 1975, in Largo Marinai d'Italia a Milano.
UNA VITA PER L’IMMAGINE… Tra impegno civile, amore per la poesia e per la pittura, Luigi Biffi è stato uno dei protagonisti della stagione figurativa milanese del secondo dopoguerra. La sua è stata una poetica sostanzialmente urbana, dai tratti fantastici e trasognati, espressionisticamente visionaria ma anche sempre fervida di realtà dimesse, di “normalità” spiazzanti, di pudiche tenerezze.
Luigi BIFFI. Milano 1928 - Milano 1994. Pittore, disegnatore e incisore ha allestito numerose personali in Italia ed ha partecipato a importanti rassegne di tendenza. Famoso per la sua produzione grafica spesso dedicata a temi storici legati a Milano.
Luigi Biffi, Uomini nuovi per nuove bandiere.  Olio su tela, 80 x 100 cm, 1974.
Luigi Biffi, Uomini nuovi per nuove bandiere. Olio su tela, 80x100 cm, 1974.
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Un racconto dal passato Messaggio per un secolo di Adelio Fusé 1. Quante volte ho cercato il volto di mio padre nelle foto di quei giorni livornesi, mentre la comunità socialista si divideva. Suvvia, già due erano le parti: i riformisti "tiratardi", così li chiamava mio padre, e loro, i rivoluzionari cui la terra bruciava sotto i piedi. Accomodante in famiglia e con gli amici, era invece intransigente e impaziente con i propri obiettivi massimi. Gli ideali, diceva, non aspettano. E lui trovava imperdonabile farli aspettare. Sono lì, immobili come la Stella polare, gli ideali, ma pretendono una navigazione veloce. Voleva mosse rapide, mio padre, e accelerava. "Se il tempo aveva mani," mi raccontava mia madre, "lui se le sentiva strette intorno al collo, e per non soffocare, agiva." Le foto lui le aveva ritagliate dai giornali dell'epoca, e mia madre prima, io e miei fratelli poi, nei decenni le abbiamo sempre trattate con la cura che meritavano. Il suo volto serio che ricaccia dentro la dolcezza lo trovavo facilmente in altre foto. Una volta cresciuta e in grado di capire, mi è sempre parso di scorgere nel suo sguardo il riflesso dei valori per cui lui combatteva. Perché allora ho sempre avvertito il bisogno di scovarlo là, il suo volto, nella folla dei compagni, compresi i "tiratardi"? La domanda è retorica. Si agisce in proprio, ma il contributo personale perde senso se non sfocia in un'unica grande azione collettiva. Questo era mio padre. Livorno, 21 gennaio 1921: al teatro San Marco nasceva il Partito comunista d'Italia. Quel giorno sono venuta al mondo anch'io, sulla stessa costa ma più nord, ad Ameglia, in una casa fra gli ulivi. Per lui io fui una sorpresa. La levatrice gli aveva assicurato che il parto non ci sarebbe stato e anche mia madre lo aveva convinto che rimaneva un buon margine, ma solo per rincuorarlo, lei sentiva che non mancava molto. E io, nei momenti tristi della mia vita, eccomi sempre a scandagliare con una lente quelle foto in cerca del suo volto fra i volti dei compagni e delle compagne. Perché c'erano anche le compagne, sapete? Andava fiero del cognome che portava: Giusti. Una bella tradizione da perpetuare. Un fratello di mio padre e il mio nonno paterno erano simpatizzanti socialisti, e per un po', dopo la scissione, si guardarono di traverso. "Stai sbagliando e state sbagliando. Siamo più deboli noi e sarete deboli voi", lo provocavano. Mio padre insisteva per portarli dalla propria parte: "Se vi sentite deboli, non avete che da venire con noi. Noi siamo già una forza!". Ma non smisero mai di volersi bene, e poi alcuni nemici erano in comune, gente pronta a ripararsi sotto lo stesso sciagurato ombrello, quello di Mussolini. Io, la prima di tre figli, divenni Letizia: il sogno che si fa realtà al di della vita dura. A chiamarmi così fu mia madre, mio padre si limitò ad acconsentire. Intanto era entrato nel mirino delle squadracce in camicia nera, poteva essere altrimenti: guardato a vista, sotto minaccia e, in crescendo, battuto a sangue ("mi hanno torchiato come le nostre olive"). Non si dava pace: era stata fra le peggiori umiliazioni farsi mettere sotto così da "quelli". Lo consideravano un pericolo, e in questo non avevano torto: uno capace di trasferire gli effetti di una mareggiate dalla costa fino in cima alle montagne. Propagandava e sobillava. "Qui io finisco sotto il torchio ma non le nostre olive", disse, quando iniziò a passare le notti a sorvegliare l'oliveto, dopo che avevano tentato di appiccare un incendio. Poi, a raccolta avvenuta, gli fu impedito l'accesso al torchio. Lasciare la famiglia per la Francia per lui fu una sconfitta. Era nato intanto mio fratello Armando, Enrico, il più piccolo, sarebbe giunto più tardi; mia madre, che aveva da poco scoperto la nuova gravidanza, non disse niente a mio padre, era necessario che lui partisse, per salvare stesso e per salvare noi. Mia madre lo aveva sempre appoggiato, la fede era la stessa, ma, d'accordo con lui, stava coperta e attenta, nemmeno una parola con chicchessia sulla vita politica. La notte che mio padre salpò, la mareggiata era di altra specie, e tutta interiore. Dalla Francia scrisse lunghe lettere, un poco sgrammaticate, ma che importava? Le consegnavano a mia madre dopo averle aperte e richiuse male, per far capire che non passavano inosservate. Le ho ancora con me, nella stessa casa dove sono nata, in fondo rimasta uguale e cambiata solo per tamponare gli inevitabili cedimenti. Lì, prima del mio definitivo ritiro dalla vita pubblica, sempre tornavo a ritemprarmi o leccarmi le ferite per le battaglie perse. E l'oliveto, solo poche terrazze, non è mai andato in malora, anche se non per merito mio ma per il lavoro di altri a cui lo avevo affidato. E ancora produce. Poi smise di scrivere, o comunque mia madre smise di ricevere le sue lettere. L'ultima dalla Francia non portava la sua firma ma quella di un compagno addolorato: un sicario aveva freddato mio padre qualche giorno dopo il congresso del Partito a Lione, nel 1926. Era un pesce piccolo, ma diventava sempre più grosso e gli fecero l'onore di prenderlo nella rete. 2. E questo, invece, è un manifesto celebrativo. Il Sole spunta sopra l'orizzonte e sale, per ora è un mezzo cerchio. I raggi sono simili a frecce conficcate? Sono le sofferenze patite ma nello stesso tempo un annuncio. E` l'aurora, si va verso l'avvenire. Il nome del Partito, inciso nel semicerchio, ne segue il profilo: coincide dunque con il Sole e la fede in ciò che verrà e sarà. Sotto, campeggia l'anno della fondazione 1921 –, ponte fra il nome e la falce e il martello, da cui spuntano, come due ali, le spighe. Da un promontorio due uomini osservano e salutano. Ci dovrebbe essere sempre un avvenire da salutare. Uno dei due è di spalle, mostra appena il volto, sembra giovane. Nella mano sinistra impugna un badile, nella mano destra, regge il berretto, il braccio sollevato interseca quello dell'amico e compagno. Un incrocio speculare alla falce e al martello. Ma sono forse, chissà, l'uno il figlio, l'altro il padre. Il secondo uomo si mostra di profilo, anch'egli con la mano sinistra posata sul manico del badile, lo si percepisce più anziano e più provato del primo, che emana invece una controllata fierezza: una staffetta di generazioni, nell'insieme sobria, e con il decoro e la dignità di chi non ostenta. O non ha bisogno di vuote esibizioni, perché gli intenti di una fede parlano comunque con voce chiara. C'è del misticismo? Come in ogni fede. Ma loro hanno piedi ben piantati nel suolo. Non dimenticano certo la terra, loro, frequentano la fatica. Il disegno è in bianco e nero ma i colori si possono pur sempre aggiungere. No, non nel disegno! Nella realtà! I colori smaglianti e luminosi degli ideali, anzitutto. Quanti sono? La tavolozza è ricca ma convergono in uno. Il rosso della passione civile, quello del sangue versato. Io non ne ho versato: sono ancora qui, in una porzione del pianeta Terra, ma non sono sola, sono parte di una Storia. Penso ai molti che hanno perso la vita cedendola a un ideale e tanto basta per averli con me. Siamo insieme: loro e io, io e loro. E fra loro e voi, nella mia parte di sopravvissuta, ho i doveri di una intermediaria. I due uomini sono i protagonisti di una storia finita e tradita? Gli eredi. Bisogna chiedere agli eredi. Che ne hanno fatto e cosa ne faranno del lascito. Voci contrarie sentenziano che i due compagni sul promontorio, visti con gli occhi di oggi, non inviano un saluto all'alba e a una nascita ma al tramonto e a una morte. Il loro gesto di saluto sarebbe allora un congedo. Un addio. Qui, intanto, si celebra un'alba. Preferite credere che sia ormai un tramonto? L'alba e il tramonto non sono solamente gli estremi del giorno: i colori dell'alba possono richiamare il tramonto e quelli del tramonto l'alba. Ma la speranza trova posto nell'alba: nel tramonto non la troverete. "Domani mattina si va a vedere l'alba al Poggio e serve un badile", ho detto a Consuelo. Vive con me da anni e mai l'ho vista mescolare in quel modo stupore e spavento. Ha sporto gli occhi scuri sopra la mascherina, come se le dovessero rotolare via. Il luccichio solito che hanno dentro si era spento: il mio anziano cervello aveva forse mandato un repentino e temuto segnale di crollo e lei ne era rimasta impressionata? E` stagione fredda, questa, e all'alba poi! E il badile! E forse avrei persino proposto di raggiungere il Poggio andando su camminando. Ma no, Consuelo, al Poggio mi ci porti con l'auto. Non ci sarà la grande festa prevista per i miei cent'anni, quella che mio figlio e i miei nipoti e bisnipoti avevano pianificato con largo anticipo, prima che il virus diventasse il padrone. Abbiamo mantenuto i contatti, non mi hanno certo abbandonata. E altri si sono fatti vivi nelle maniere più varie e fantasiose. Sono fioccate le interviste a distanza, una donna centenaria fa notizia. Vogliono la militante e la partigiana, la figlia di Lorenzo Giusti, attiva nella Resistenza con i due fratelli e sua madre, la famiglia al completo; vogliono la femminista, la deputata, persino la pittrice e la scultrice che sono diventata nella vecchiaia, finché le mani me lo hanno permesso. Vogliono poi la mia vita privata, giù fino ai miei amori. I miei viaggi, le città dove ho abitato, la casa natale dove infine ho riaffondato le miei radici, del resto mai recise. Spalanco la mia memoria, che non balla inaffidabile, e la metto a disposizione. Rispondo alle domande e la mano, stretta intorno al cellulare, trema, e la voce a volte si abbassa e l'udito, benché aiutato dall'apparecchio acustico, fa i capricci. Ma i ricordi, no, quelli ci sono tutti nella loro grande girandola: il segreto è lasciarli liberi. E non contengono, badate, cimeli impolverati. Se della polvere c'è, sta a voi toglierla e renderli ancora utili, perché non sono pezzi della mia storia soltanto, io non sono che una voce dentro a un coro, e quello che serve ascoltare è proprio il coro. Arriviamo al Poggio con la prima luce che si sta formando. Si fa presto a intuire che l'alba sarà radiosa, come una promessa mantenuta. La luce crescerà e ci saranno i colori attesi. L'aria è fredda e punge, sì, ma la respiro a polmoni pieni, "e questo, Consuelo, non è il mio ultimo sospiro, non ancora". Abbassata la mascherina, sento l'aria infilarsi spedita in ogni mia ruga, e diventare poi acqua che si incanala. Ho il viso solcato da tanti ruscelletti. "Respira, Consuelo, respira questa meraviglia." E poi, ecco, scivolano le lacrime, assaporo il momento, lei non se ne accorge o finge. Quando mi aiuta ad alzarmi dalla sedia a rotelle, ho di nuovo il viso per metà nascosto dalla mascherina ma gli occhi devono essere ancora arrossati. Consuelo non ha la presa salda che le conosco, qualcosa la turba, ma io desidero rimanere in piedi almeno un poco, anzi il tempo che sarà necessario. "Sta per arrivare tuo figlio", mi ricorda seria, come per trattenermi. Giustifico la sua preoccupazione: non posso offrirmi a lungo a questo freddo. "Non a quest'ora. Lorenzo verrà più tardi", le dico. Mio figlio porta il nome di mio padre. Lei ha fretta di portarmi via, si sente responsabile. E forse anch'io dovrei essere responsabile con lei. "Consuelo, respira," le dico ancora. Non sarà la patetica cerimonia di una donna centenaria con la mente ormai in panne. Comunque non posso costringere Consuelo a prendervi parte: non comprende il mio gesto, le ho descritto quello che sta per succedere. Se la forzassi nella parte della comparsa, sì, cadrei nel pietoso, sarei persino volgare. Lei è qui, alle mie spalle, pronta a sorreggermi, io per prima mi credevo più malferma di quanto non sia; il manico del badile è il mio bastone. Non avertene a male, Consuelo, questa volta posso fare da me. Il Sole si affaccia e sale, e io sono pronta ad accoglierlo, una mano sul manico del badile, l'altra che stringe il mio berretto di lana sollevato nell'aria. Il braccio è teso e ne incrocia un altro: mio padre è qui, accanto a me. Una figura d'aria che ne include innumerevoli altre: mia madre, i miei fratelli, altre famiglie e gruppi; le compagne e i compagni che hanno fatto con me la mia vita o l'hanno attraversata solo per poco ma lasciando un segno; chi avrei potuto conoscere e non ho mai incontrato; chi è entrato nei libri e ora è dimenticato; e chi non ha mai avuto il privilegio di una riga. Questa catena umana, che spezza qualunque altra catena, la vedo nel Sole, dove si specchia.
Manifesto che celebra la fondazione del Partito comunista italiano.
Marco Seveso _____________________ LA POLITICA E LA PITTURA… Questa pagina è tratta da un vecchio diario di mio fratello Marco, pittore a Torino scomparso tre anni fa. Se una malattia bastarda e fulminea non l’avesse portato via so per certo che sarebbe stato anche lui tra i promotori di questa nostra iniziativa… Per questo mi sono deciso a pubblicarlo qui, insieme ad una sua immagine di argomento «politico». (G.S.) Sono assalito da dubbi circa il mio pensiero sulla cultura e sulla politica. Dubbi che investono anche la mia azione di pittore. Cosa dipingere? Verrebbe facile dire: l’uomo e il suo ambiente. Dipingere bene ha ancora senso! Peccato che il pittore non goda oggi di alcuna considerazione: le opere non interessano, il pittore è un soprammobile per i ricchi, un mito per la classe media. Può essere però un bene: i pittori bravi oggi provengono dalle classi povere. Ma a chi parlano i pittori? Nessuno li sente. Finché giungeranno a gridare così forte che tutti ne avranno i timpani rotti. Così è il pittore. «A forza di fatica il bruco diventa la ricca farfalla.» (Apollinaire) (14/02/1968)
Marco Seveso, Cosa rimiri mio bel partigiano, 60x50cm, olio su tela, 2010
Daniel Bec ________________________ CONTRO LA GUERRA IN VIETNAM… Ecco un artista francese, purtroppo prematuramente scomparso, di grande talento e forte personalità. Ha lasciato nel nostro Paese tracce robuste di una figurazione inimitabile e profonda. L’opera qui riprodotta, tra le sue rare di impegno esplicitamente politico, è stata realizzata per una collettiva sul tema della guerra del Vietnam a una Festa de l'Unità provinciale di Savona nel 1966. Attualmente fa parte della collezione “Fondazione Cento Fiori”.
Daniel Bec,VietNam,acrilico su cartoncino, 101x64cm, 1966
Alberto Pellegatta _________________________________ SE IL CORAGGIO DEI FIGLI… da Ipotesi di felicità (Mondadori 2017) Non sei neanche più la sciatta che mendica nell’angolo più sporco, truccata pesante offri labbra repellenti. Nei tuoi orti non cresce neanche l’ortica. A cosa è servito compilare saggi e versi se poi si arriva a questo? Se il coraggio dei figli è la paura dei padri e la maggioranza soffoca l’Italia intera.
Sauro Largiuni ______________________ Un racconto breve… L’INCARICO «Da tempo aveva lasciato il lavoro per la prolungata esposizione alle polveri e ai fumi tossici della fabbrica. Ormai aspettava solo il manifestarsi della malattia di cui gli erano purtroppo noti i segni osservati già in diversi compagni di lavoro morti negli anni. Si era quindi stupito quando la nuova dirigenza del vecchio stabilimento lo aveva convocato affidandogli a compenso del riconoscimento dei requisiti indispensabili alla pensione anticipata l’incarico di compiere la ricognizione accurata di ogni reparto da demolire. All’inizio la lunga pratica di lavoro e la perfetta conoscenza della fabbrica gli erano sembrate trappole da evitare ad ogni costo. Aveva quindi indugiato prima di accettare, poi però il timore di perdere i soldi del “rischio malattia” ed anche la possibilità di tornare l’ultima volta dove aveva speso gran parte della sua vita lo avevano convinto ad acconsentire. Una decisione a cui si era fra l’altro accompagnata la sensazione di avere una parte nel destino di un luogo tanto importante per il suo. In realtà fin dal primo sopralluogo egli restava attonito e sgomento di fronte a come e quanto il tempo e l’incuria avessero sconvolto lo stabilimento rendendo quasi irriconoscibili i suoi reparti. Nulla pareva essersi salvato. Nemmeno quel poco che, rintoccando tra i finestroni rotti o sbattendo fra le brecce dei capannoni sfondati, pareva scuotersi soltanto per celebrare con quei lugubri intermittenti saluti la caduta finale o aspettare l’estrema e violenta ventata che, volandolo via facilmente, avrebbe posto compassionevolmente fine alla sua interminabile agonia. Una sterminata desolazione che non avrebbe potuto opporre alcuna resistenza alle macchine attrezzate e alle squadre specializzate nelle operazioni di abbattimento e bonifica dell’opificio dismesso. Tuttavia l’incaricato, non volendo venir meno al compito ricevuto, seguitava per giorni le sue meticolose ricognizioni finché una notte piovosa non giungeva davanti ad un alto muro scortecciato. Una possente barriera di confine oltre la quale c’era un’altra fabbrica dove fervevano diuturne attività e cresceva di continuo la produzione grazie, si diceva, alla manodopera irregolare degli schiavi (così chiamati dai più) che lavoravano sempre e non si lamentavano mai. Sulla balza del muro s’apriva una larga crepa che, restringendosi a poco a poco, risaliva la parete striata di muschio e solcata dai rivoli di pioggia che al suolo erano inghiottiti dentro una botola dal cui coperchio, lentamente schiuso, sbucava uno che scivolando nel fango si avvicinava alla fessura dove impaziente accostava gli occhi. «Ciò che riesco a vedere,» diceva senza staccarsi dall’incrinatura e volgendo le spalle all’incaricato «mi basta ad aspettare che questa spaccatura si allarghi…» allungando le mani sui labbri della crepa come a volerla dilatare «per andare di dove, confondendomi con gli schiavi,» lasciando ricadere le dita e voltandosi di colpo «potrei ancora lavorare.» mostrando le piaghe delle mani e gli sfregi sul viso che la pioggia sembrava pietosamente lenire e lavare. Nella notte la pioggia era smessa. L’incaricato era rimasto ad ascoltare fino a bruzzico l’altro che, ubbidendo a un invisibile quanto implacabile segnale di minaccia nascosto tra gli albori, riapriva il coperchio e spariva nella botola lasciandolo nella più gravosa incertezza. Se infatti, nei giorni seguenti, avesse messo al corrente lo scomparso delle intenzioni della committenza questi si sarebbe perso certamente d’animo rinunciando alla speranza di allargamento dell’incrinatura e quindi rassegnandosi alla sua tragica sorte. Se invece avesse avvisato, com’era suo dovere, la direzione di quella importuna presenza essa avrebbe sicuramente accelerato, se non anticipato, le operazioni di smantellamento dell’opificio. Alla fine l’incaricato decideva di non dire nulla ad alcuno. E quando le macerie degli abbattimenti s’accatastavano al muro di confine nessuno poteva sapere se avessero chiuso la crepa dopo che si era tanto allargata da poterla varcare oppure l’avessero sigillata prima che le macchine completassero le operazioni di bonifica della nuova area edificabile.» Questo racconto breve è tratto dalla raccolta in corso «Sverze», ed è dedicato in particolare ai lavoratori della ferriera della mia città natale e più in generale ai pochi che sanno ancora lavorare e ai troppi che il lavoro non hanno più.
Michele Coralli ____________________________________________ Alla ricerca dell’egemonia culturale perduta: da Claudio Villa a Luigi Nono 1957: Un giovane e già carismatico Claudio Villa vince il Festival di Sanremo con la canzone Corde della mia chitarra . Questo avviene nonostante una celebre stecca che fornisce alla stampa il pretesto per attaccare il personaggio, anche a causa di una certa boria e di una esibita sicumera vocale espressa attraverso fioriture e virtuosismi che incontrano sempre i gusti del grande pubblico. Nonostante la stonatura, Villa vince ma, come da tradizione, la stecca porta con un seguito di polemiche, cavalcate ad arte dal settimanale «TV Sorrisi e Canzoni», il quale indice addirittura un referendum tra i favorevoli e i contrari al “reuccio”, a breve distanza, tra l’altro, dalla discesa in campo di un onorevole missino che muove niente meno che un’interrogazione al ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni! Per non far mancare punti di vista autorevoli, sul giornale è chiamato a intervenire anche Pier Paolo Pasolini, che in maniera molto asciutta commenta: Mi piace il repertorio delle canzoni melodiche di Claudio Villa, perché mi piace il pubblico che ama questo stile popolare e verace (mutatis mutandis, un pensiero affatto dissimile da quanto poi espresso in poesie come Transumanar e organizzar , 1971). A dirla tutta, però, Claudio Villa è perfettamente in grado di difendersi da solo, da par suo, ovvero in modo orgoglioso e antipatico a molti: Giunto alle più alte sfere della popolarità, ho provato a piegarmi dall'alto del piedistallo su cui mi hanno fatto assìdere, ho voluto guardarmi intorno e guardare negli occhi di queste ragazzine romantiche che palpitano davanti alle mie fotografie. Stabilire un contatto che riveli a tutti gli ammiratori della mia voce che dietro questa voce c'è una persona che ama, soffre e lotta. [...] Claudio Villa non intende lasciare i suoi ammiratori come miseri mortali in adorazione del divo prediletto ”. 1975: La FGCI di Roma organizza presso il Palazzo dello Sport una festa per il XXX della Liberazione. Ci sono molti musicisti e attori “organici” come quelli del Nuovo Canzoniere Italiano (Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Paolo Ciarchi), gli Inti Illimani, Maria Carta, Giorgio Gaslini, Mario Schiano, Gian Maria Volonté, Luigi Proietti e naturalmente Luigi Nono, fresco di nomina al Comitato centrale del PCI. L’evento viene documentato in modo accurato da Luigi Perelli nel film Musica per la libertà ( Unitelefilm, 1975; disponibile sul canale YT dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico). Un mondo militante e una varietà musicale si incontrano in un interessantissimo melting pot che affianca canzoni di lotta, free jazz e musica d’avanguardia; per quanto a farla da padrona, sotto il profilo emozionale, sono soprattutto i gruppi esuli cileni, Inti Illimani in testa, in virtù ovviamente del recente colpo di Stato di Pinochet, avvenuto un anno e mezzo prima. Questo il ricordo di Della Mea: Va Pietrangeli con la Contessa , va la Marini coi Treni per Reggio Calabria, vado io con la Cara moglie . Pugni alzati, cori alla grande. Applausi a scroscio (Ivan Della Mea, «il manifesto», 31/05/2008). Insomma una grande celebrazione musicale e politica, tipica di quegli anni… Poi arriva il momento di Luigi Nono che offre l’ascolto del suo Canto sospeso per solisti, coro misto e orchestra (in questo caso però da una registrazione su nastro magnetico). Il brano del 1955-56, basato sulle Lettere di condannati a morte della Resistenza europe a (Einaudi, 1954), viene scelto al posto del più recente Für Paul Dessau (1974) il cui nastro non è disponibile (il perché lo spiega lo stesso Nono nel film). Il canto sospeso è una composizione militante, pregna di contenuti civili che sfuggono a ogni possibile retorica di parte, ma probabilmente è molto meno intellegibile nei suoi contenuti civili rispetto alla composizione scritta per Dessau, forte del campionamento delle voci di Che Guevara, Fidel Castro, Lumumba e Lenin, che forse avrebbero suscitato un altro tipo di reazione da parte dei giovani della FGCI. E invece alcuni di costoro, di fronte a una musica che arriva alle loro orecchie improvvisamente distante, fredda, concettuale e soprattutto non adeguata al veemente spirito di lotta appena riscaldato dai canti collettivi, iniziano quasi subito a fischiare Nono. E in modo impietoso. Così Della Mea: Poi, Nono. Una cosa sua registrata, con lui che armeggia a vista intorno a magnetofoni: suoni strani, altri, difficili da capire. Silenzio del pubblico. Poi, un fischio. Due fischi. Una selva di fischi. Nono imperterrito prosegue. Il Palazzo è tutto un fischio ”. A questo punto il compositore prende il microfono e improvvisa un discorso memorabile che ribalta completamente la situazione: Compagni, c'è un fatto culturale e politico di grande importanza: mi rendo conto del perché dei fischi e mi rendo conto anche di una certa difficoltà. Ma noi comunisti dobbiamo essere convinti e coscienti che dobbiamo usare tutti i mezzi a disposizione della cultura... Dobbiamo usare tutti i mezzi, non solo le chitarre... Dalle chitarre, dai canti politici, alla musica elettronica, alla musica strumentale. E non abbandonarci a facili trionfalismi, ai semplicismi politici dei testi. La cultura comunista è un fatto serio, è un fatto che impegna come dice Gramsci la grande intelligenza. Può essere difficile, ma ricordatevi che abbiamo bisogno di tutta l’intelligenza nostra e di tutti i mezzi a nostra disposizione se vogliamo realizzare l'egemonia culturale della classe operaia” [la trascrizione dal film di Perelli è nostra, NdA ]. Il palasport esplode in un tripudio di applausi. Il consenso perso durante l’ascolto, è guadagnato sul piano dialettico. Cosa è successo quindi? Come avrebbe certamente detto Luigi Pestalozza, la situazione si è ribaltata perché il pubblico è stato “formato”, ovvero ha appreso che dietro quei suoni c’è un pensiero che esige rispetto, al pari del rispetto che esige ogni lavoro dell’uomo. Ed è proprio questo l’approccio attraverso il quale si muovono in quel periodo iniziative analoghe, che portano la musica contemporanea nelle fabbriche. Il desiderio è quello di coinvolgere gli operai attraverso spiegazioni ideologiche atte a consentire la fruizione di suoni complessi e di non facile assimilazione, seppur densi di significati. Il portato dello sforzo culturale è storico, anche se gli esiti non sono sempre felici. All’interno del Palazzo dello Sport il pubblico della FGCI si divide tra chi apprezza lo “stile popolare e verace” dei canti con la chitarra (il punto di vista pasoliniano) e chi invece si sforza di capire e di apprezzare anche la musica d’avanguardia di Nono. Cosa mette in comune allora questi due episodi così esteticamente distanti, come la conferenza stampa di Claudio Villa e il comizio improvvisato di Luigi Nono, al di dell’oggettivo impegno di entrambi nel Partito? Ebbene, questi eventi ci parlano di due artisti militanti colti nell’atto di mettere in pratica il concetto gramsciano di “egemonia culturale”, un passo fondamentale della lotta politica. Riprendendo finalmente Antonio Gramsci, possiamo riferire le sue osservazioni sulla lingua per ricondurle alla musica, proprio perché questa è stata uno dei media più potenti fin dai tempi della Rivoluzione francese: Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale ”. ( Quaderno 29, Note per una introduzione allo studio della grammatica , 1935). A modo loro sia Villa che Nono “formano” il loro pubblico. Il primo, stabilendo un contatto che riveli a tutti gli ammiratori […] che dietro questa voce c'è una persona che ama, soffre e lotta e così facendo, eliminando ogni tratto divistico legato alla popolarità, rifiutando cioè quel cliché tipico della cultura pop nella quale i fan vengono considerati dei miseri mortali in adorazione del divo prediletto ”. Se qualcuno deve imparare a stabilire dei rapporti intimi tra gruppi dirigenti e masse popolari, si rilegga con attenzione queste parole: Claudio Villa sembra aver appreso molto bene la lezione gramsciana. E lo stesso dicasi per Nono che stende a braccio, di fronte a una platea “ostile”, una vera e propria parafrasi del pensiero gramsciano, ributtando in faccia a quella parte di pubblico acritico e ottuso la lezione del padre di tutti quei giovani comunisti, spinti troppo in da facili trionfalismi e semplificazioni culturali di comodo. Con ogni probabilità questo è ciò che manca e che mancherà ancora per lungo tempo nella dialettica politico-culturale di questi anni 2000: un partito capace di raccogliere e mettere in agevole sintonia anime veraci e popolari da una parte, anime intellettuali dall’altra. E aggiungiamo noi anche anime eretiche come PPP, tenuto sempre a dolorosa distanza dalle dirigenze del Partito comunista italiano, come in una sorta di grave (e mal riposto) lusso morale, o meglio, di mala-interpretazione di quel concetto di egemonia culturale, piegata di fronte al più becero dogmatismo o, peggio, moralismo puritano. Ma questa, come si dice, è un’altra amara storia comunista…
Giuseppe consoli ___________________________ una vita tra pittura e politica… Giuseppe Consoli era nato a Mascalucìa (CT) nel 1919. Stabilitosi a Milano nel 1959, vi è scomparso nel 2010. Nel 1945, tornato in Italia dopo due anni di prigionia nei lager nazisti in Germania, non ha mai smesso da allora di esprimere in arte la sua personale denuncia sociale, come forma di lotta e resistenza. Per molti anni tesserato del PCI, nel 1951 vinse il Premio Suzzara con il quadro “Strage di Portella della Ginestra”, oggi nella Raccolta CGIL a Roma. Nel 1952, insieme a Guttuso, si impegnò sul piano della sindacalizzazione degli artisti. L'attenzione alla cronaca e alle tematiche sociali e del lavoro è sempre stata molto presente nella sua pittura, specie quando le strade d'Italia furono insanguinate dagli scontri politici negli 'anni di piombo'. Notevole la sua presenza e la sua generosità nel contribuire e partecipare con il suo lavoro all’allestimento di moltissimi Festival dell’Unità milanesi e non solo.
Giuseppe Consoli, Strage di Portella della Ginestra. Olio su tela, 120x300cm, 1951
Luigi Biffi ________________________ UNA VITA PER L’IMMAGINE… Tra impegno civile, amore per la poesia e per la pittura, Luigi Biffi è stato uno dei protagonisti della stagione figurativa milanese del secondo dopoguerra. La sua è stata una poetica sostanzialmente urbana, dai tratti fantastici e trasognati, espressionisticamente visionaria ma anche sempre fervida di dimesse realtà, di “normalità” spiazzanti, di pudiche tenerezze.
Luigi Biffi, Uomini nuovi per nuove bandiere.  Olio su tela, 80 x 100 cm, 1974.
Luigi Biffi, Uomini nuovi per nuove bandiere. Olio su tela, 80 x 100 cm, 1974.